A Hong Kong è stata approvata in tutta fretta la seconda legge sulla sicurezza nazionale, quella che va sotto il nome di Articolo 23: liberticida, allunga ulteriormente la lista dei crimini che potrebbero mettere a repentaglio la sicurezza della nazione, allargando il concetto di “segreto di Stato” (ora può includere anche gli sviluppi sociali e le notizie economiche) e quello di “collusione con forze estere”.

La genesi di quest’articolo della mini-Costituzione di Hong Kong, la Legge Fondamentale, la dice lunga. Venne infatti introdotto dopo che la Legge Fondamentale era già stata scritta, quando Pechino vide l’enorme sostegno che avevano avuto a Hong Kong le manifestazioni pro-democrazia del 1989, a Tian’anmen e in tante altre piazze cinesi.

Quando l’esercito intervenne per mettere fine alle manifestazioni, quasi un milione di persone scese in piazza ad Hong Kong, malgrado stesse infuriando un tifone stagionale.

E fu in quel momento che Pechino capì di non aver voluto prendere in considerazione l’anima politica, e pro-democratica, di Hong Kong, e volle mettere rimedio con l’Articolo 23. Che prevede che Hong Kong, “da sola” vari leggi sulla sicurezza.

Dal 1997 (anno del passaggio di sovranità dalla Gran Bretagna a Pechino) ad oggi, però, la legge languiva; un primo tentativo di vararla, nel 2003, venne bloccato dalle manifestazioni e dall’opposizione popolare, che diceva che la legge poteva essere scritta solo dopo che Hong Kong avesse avuto il suffragio universale, da legislatori eletti dai cittadini (il suffragio universale è promesso dall’Articolo 45 della stessa Legge Fondamentale).

La svolta del 2019

Invece, dopo le manifestazioni di massa del 2019, interrotte dalla pandemia di Covid, Hong Kong ha subito cambiamenti epocali. La revisione della legge elettorale, che autorizza solo i patrioti selezionati da una Commissione elettorale a candidarsi, ha reso molto meno rilevante l’Articolo 45.

La decisione di Pechino di introdurre una Legge sulla sicurezza nazionale scritta e approvata a Pechino nel 2020, che ha portato alla chiusura di giornali, associazioni, sindacati, e l’Unione degli studenti ha fatto si che il breve periodo di consultazione per l’Articolo 23 trascorresse senza alcuna manifestazione pubblica, e senza nessun editoriale dai toni accessi contro quest’ennesima restrizione dei diritti civili e politici del territorio.

Così, per le strade della città, ormai epurate di ogni manifesto o graffito che si oppone al governo e alle sue politiche, si vedono invece striscioni giubilanti, dei gruppi pro-governo, che applaudono e sostengono il rapido iter di approvazione delle leggi dell’Articolo 23.

I legislatori, tutti patrioti ben selezionati, che hanno fatto a gara ad alzare per primi e più alacremente la mano per approvarne il passaggio hanno anche voluto avere la parola per qualche minuto, in modo da poter tessere ancor più le lodi di queste nuove leggi, che serviranno a proteggere la città e la nazione.

La vaghezza è intrinseca: nel corso del dibattimento, alla domanda su se fosse legale o meno avere in casa una vecchia copia dell’Apple Daily (il principale quotidiano pro-democrazia di Hong Kong, ora chiuso, e il cui fondatore, Jimmy Lai, è attualmente a processo accusato di aver messo a repentaglio la sicurezza nazionale tramite articoli di giornale), è stato risposto che ciò dipende dal motivo per cui la si è tenuta. Quindi, quello che conta è l’intenzione, prima ancora che l’azione – una rottura totale con il sistema di common law britannica che era in vigore fino ad ora, dove i crimini e le pene sono ben dettagliati, e basati sul precedente, non sulle intenzioni dell’incriminato.

Assimilazione cinese

Hong Kong dunque diventa, dal punto di vista legislativo almeno, ulteriormente più simile al resto della Cina di quanto non fosse prima, capitanata da un Capo dell’Esecutivo, John Lee, che sostiene che questa legge, così scritta, e così rapidamente introdotta, fosse non solo necessaria in quanto dovere costituzionale di Hong Kong, ma anche necessaria perché Hong Kong sarebbe “sotto attacco”.

Da niente meno che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, che nel 2019, come durante altri periodi di manifestazioni di massa a Hong Kong, avrebbero cercato di sobillare una “rivoluzione colorata” (come quelle che si ebbero nelle decadi passate nei Paesi del blocco ex-sovietico) pagando i manifestanti per destabilizzare Hong Kong e la Cina.

John Lee non ha ancora indicato prove per le sue dichiarazioni, ma si dichiara certo di quanto dice.

La reazione davanti a questo nuovo colpo a Hong Kong da parte della comunità internazionale è stata unanime o quasi. Volker Türk, l’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni unite, ha dichiarato che si tratta di «un passo indietro» per Hong Kong, ricordando che la nuova legge è in contraddizione con le regole del diritto internazionale sui diritti umani.

Ma la fretta, e la durezza, con cui la legge è stata approvata era più una dimostrazione di lealtà nei confronti del governo di Pechino, che non una prova di rispetto delle convenzioni internazionali di cui Hong Kong è firmataria.

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