È uno scontro senza precedenti quello che sta contrapponendo a muso duro i wolf warrior, i “guerrieri” della nuova diplomazia di Pechino, agli Stati Uniti e all’Unione europea, che con Joe Biden e Ursula von der Leyen hanno rimesso i diritti umani al centro della politica estera dell’Occidente.

Nelle prossime settimane H&m, Adidas, Burberry, Nike e altri brand faranno la conta dei danni del boicottaggio voluto in Cina dopo le sanzioni varate contro funzionari del Partito comunista (Pcc) per quello che il Dipartimento di stato degli Stati Uniti definisce «un genocidio e crimini contro l’umanità» nei confronti degli «uiguri e di altre minoranze etniche e religiose» nella regione autonoma uigura del Xinjiang (Xuar).

I marchi che aderiscono alla Better Cotton Initiative (Bci) avevano smesso già da tempo di rifornirsi dalla Xuar, in seguito a segnalazioni sul «rischio aumentato» dell’impiego nell’area di lavoro forzato. Ma la reazione della Cina è scattata quando, la settimana scorsa, Bruxelles, Londra, Washington e Ottawa hanno decretato all’unisono divieti d’ingresso e congelamento dei beni per alcuni quadri del Pcc, per «gravi violazioni dei diritti umani».

H&M scomparso

Le app per le consegne a domicilio, i motori di ricerca, le mappe elettroniche e perfino Didi (lo Uber locale) hanno fatto “sparire” H&m, che pure in Cina ha decine di negozi in ogni metropoli, mentre i giganti dello ecommerce Taobao e JD bloccavano la vendita dei capi d’abbigliamento dei marchi affiliati alla Bci. In pochi minuti sono stati tagliati i canali di comunicazione tra brand iconici e la classe media più numerosa del mondo (400 milioni di persone) in un paese dove ormai il 50 per cento dello shopping si fa online. Sui social sono diventati virali i video di giovani che bruciano scarpe Nike, mentre il testimonial di Adidas in Cina, l’attore Jackson Yee, e una trentina di idoli dei millennial hanno annunciato la rescissione dei contratti pubblicitari con le corporation occidentali.

Il boicottaggio di quella che, di fatto, è una gigantesca intranet controllata da Pechino potrebbe costringere i brand protagonisti della “disfida del cotone” a lasciare la Cina, come già toccato alla sudcoreana Lotte, punita dai consumatori cinesi dopo l’installazione a Seoul del sistema anti-missile Usa Thaad, sgradita al governo cinese. Li Ning, Anta e lo sportswear made in China sono pronti ad approfittarne. Del resto, da tutti gli scontri con l’Occidente degli ultimi anni sono sempre usciti vincitori i brand nazionali.

(AP)

L’arte della guerra della Nuova era

Nell’Arte della guerra Sun Tzu sosteneva che «soggiogare il nemico senza combattere rappresenta la vera vetta dell’arte militare». La Cina – che è diventata il primo partner commerciale di oltre 130 paesi – secondo uno studio condotto dal diplomatico Robert Blackwill e dall’accademica Jennifer M. Harris (War by Other Means: Geoeconomics and Statecraft), è il principale operatore mondiale di “geoeconomia”, ovvero la pratica di perseguire obiettivi geopolitici utilizzando l’influenza economica.

Il Xinjiang, la regione a maggioranza musulmana dove – secondo informazioni che le Nazioni unite giudicano «credibili» – sono stati internati in campi di rieducazione politica fino a un milione di musulmani, per Pechino è strategico. Da sempre percorso da fermenti separatisti, confina con otto stati (tra i quali Pakistan e Afghanistan) e si sta trasformando in un hub della nuova via della Seta lanciata da Xi: porta d’accesso all’Asia centrale grazie a nuove infrastrutture come l’aeroporto internazionale di Urumqi, accoglierà il petrolio in arrivo dal Medio Oriente, quando sarà completato l’oleodotto che, dal porto di Gwadar, attraverserà il Pakistan da sud a nord. Il cotone della Xuar (5,2 milioni di tonnellate nel 2020) rappresenta l’87 per cento di quello prodotto in Cina, a sua volta il 22,4 per cento dell’output globale.

(AP Photo/Ng Han Guan)

Wolf warrior globali

La risposta di Pechino alle sanzioni occidentali si è articolata su tre piani: contro-sanzioni per i governi sanzionanti; boicottaggio “popolare” e dello star system attraverso internet; intensificazione della propaganda sul Xinjiang. Deng Xiaoping – l’artefice delle aperture di mercato che, a partire dagli anni Novanta, si sarebbero trasformate in una vera e propria cessione di sovranità da parte della “fabbrica del mondo” alle multinazionali dei paesi avanzati – aveva impostato la politica estera della Repubblica popolare cinese all’insegna del principio: «Nascondere la forza, aspettare il momento».

Xi Jinping – nella “nuova era” nella quale la Cina ha sempre meno bisogno delle corporation straniere – ha ribaltato quest’impostazione, inaugurando una diplomazia che è stata definita “wolf warrior”, dal titolo dell’omonimo film il cui protagonista, l’ex ufficiale delle forze speciali Leng Feng, onora la Cina portando a termine una serie di missioni impossibili. Wolf warrior è stato il film con maggiori incassi nella storia del cinema di produzione non statunitense.

«La Cina non cederà – ripete l’ambasciatore a Washington, Cui Tiankai –. Noi speriamo che gli Stati Uniti rispettino gli interessi fondamentali della Cina e non oltrepassino le linee rosse» del rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale, un riferimento alle politiche “antiterrorismo” nel Xinjiang, all’autonomia di Hong Kong, alla questione taiwanese e alle controversie territoriali nel Mar cinese meridionale.

A rafforzare le rivendicazioni della Cina di Xi Jinping contribuisce una rete si personaggi, molto popolari in patria, e media che alimentano il sogno di un paese che, dopo il “secolo dell’umiliazione” coloniale (1839-1945) torni protagonista sulla scena globale grazie al (o non nonostante il) suo sistema politico socialista.

Hu Xijin, patriota-ultrà e direttore del Global Times (gruppo editoriale del Quotidiano del popolo, organo ufficiale del Comitato centrale del Pcc) su Twitter ha 443mila seguaci. Nelle ultime ore ha annunciato l’uscita di un nuovo documentario sull’antiterrorismo nel Xinjiang. «Il filmato – assicura Hu – metterà in imbarazzo le malelingue». In un altro post Hu propone un video sulla produzione nel Xinjiang «della migliore qualità di cotone del mondo (…) Che noia le bugie sui lavori forzati!».

Tra i giovani della classe media più sensibili al nazionalismo anche Zhao Lijian è una star che, all’estero, cinguetta a 887 mila follower. Zhao è il più esplosivo tra i portavoce ufficiali del ministero degli esteri, quello spedito in prima linea quando c’è da scontrarsi con i network stranieri. Ieri ha cinguettato vittoria, ripostando un tweet di Shaun Rein nel quale il fondatore di China Market Research Group definisce «un antisemita che sostiene che ebrei e musulmani andranno all’inferno» Adrian Zenz, il ricercatore tedesco che ha iniziato la campagna contro i campi di rieducazione politica nel Xinjiang. Commento di Zhao: «Il colonialismo è morto, la competizione è sana non il contenimento e la destabilizzazione».

(AP Photo/Ng Han Guan)

La propaganda

Un ruolo di primissimo piano in questo sforzo propagandistico è riservato alla “Cgtn”, nata nel 2013 dalle ceneri della vecchia “Cctv news” e attivissima attraverso i suoi canali tv, su internet e attraverso i social media. Con sedi a Pechino, Nairobi, Washington e Londra (dove è stata recentemente oscurata, facendo scattare il contro oscuramento della Bbc in Cina), la “Cnn” cinese trasmette i suoi programmi in inglese, francese, spagnolo, russo e arabo e ha una presenza massiccia sui social occidentali.

Su YouTube la “contro-informazione” della Cgtn è ora disponibile, sottotitolata e indicizzata, anche in italiano. L’ultima trovata del network nato per tirare la volata alla “Nuova era” è quella di utilizzare osservatori occidentali per raccontare all’estero i successi del gigante asiatico. Quando l’epidemia di Covid-19 è diventata pandemia, Ryan, un giovane insegnate d’inglese a Pechino, con i suoi “Viral videos with Ryan” ha intonato un peana a puntate all’efficace contenimento cinese. Al momento imperversano un “viaggiatore francese” e uno “scrittore tedesco” (entrambi oscuri quanto, apparentemente, ingenui) che «raccontano il vero Xinjiang».

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