Costretti alla lettura scolastica dei Promessi Sposi, noi italiani disponiamo di una meravigliosa metafora per descrivere quelle situazioni in cui, invece di preoccuparci della nostra sopravvivenza, preferiamo perdere tempo a litigare con i nostri compagni di sventura: “fare come i capponi di Renzo”. Per i pochi immemori del romanzo, il riferimento è ai quattro galli che Tramaglino porta in dono all’avvocato Azzeccagarbugli e che, per tutto il tragitto, si beccano l’un l’altro invece di tentare di darsela a gambe.

L’immagine è calzante se si osservano i recenti eventi politici a cui abbiamo assistito con la speranza che potessero contribuire a sbrogliare le delicate crisi in corso nel mondo. Eppure, i tre giorni di lavori del G7 hanno prodotto più meme sui social che passi avanti in politica estera; la conferenza sulla pace in Ucraina sembra avere diviso il fronte dei sostenitori di Zelensky anziché compattarlo; le stesse elezioni europee sono diventate occasione più di scontro per il potere in patria che di confronto sul destino del continente.

Sballottati

La radice del problema è nota: è più semplice accapigliarsi sul nostro scomodo presente individuale piuttosto che immaginare un intricato futuro comune. Le democrazie, in particolare, faticano a tenere il passo con il mondo contemporaneo: di per sé avrebbero anche la capacità di evolvere in base alle istanze e alle aspettative dei cittadini, ma è l’insostenibile velocità assunta del cambiamento globale a disorientarle. Le trasformazioni si susseguono a un grado tale di confusione e instabilità che oggi milioni di “capponi” si trovano violentemente sballottati tra le scelte opposte del mondo contemporaneo.

Nei vuoti ideologici che si aprono, vaghiamo alla ricerca di un elemento in grado di rinsaldare le nostre certezze e corriamo in massa verso quello che appare come il gallo più favorito: il campione capace di vincere e convincere in ogni scontro con gli altri. Salvo poi seguire compatti il concorrente immediatamente successivo che promette di avere successo dove i precedenti hanno fallito. E già che ci siamo perché non beccarci nel tragitto?

Qualche decennio fa le oscillazioni erano meno pronunciate e gli spazi politici tendevano a riempirsi in modo più omogeneo, grazie a posizionamenti intermedi, obbiettivi strategici diversificati e leadership con visioni eterogenee. Un’abbondanza di progetti e idee capaci di rappresentare istanze e identità diverse senza che i loro sostenitori si spaccassero in tifoserie da stadio.

Oggi le alternative sono drammaticamente ridotte. Non possiamo rendere la democrazia statica: si tratterebbe di un pensiero antitetico a una forma di governo pensata proprio per rispondere al bisogno di continuo mutamento. All’inverso, inseguire il vorticoso dinamismo della geopolitica mondiale pare il modo migliore per far deragliare alla prima curva le nostre vetuste istituzioni, soprattutto se i passeggeri contribuiscono allo sbilanciamento, assembrandosi tutti sullo stesso lato. Che alternative ci restano, oltre a schiantarci e finire in pentola?

Ritornare alla dialettica

Forse l’opzione più sensata è quella di tornare a riflettere sulla nostra idea di democrazia, smettendo di intenderla come lo sforzo di colmare il vuoto in cui siamo piombati attraverso l’affannosa ricerca di un salvatore. Dovremmo ricordarci che l’essenza della dialettica pluralista risiede proprio nel confronto in sé stesso che, per quanto esso possa diventare concitato, rimane un esercizio politico necessario, non una lotta mortale tra un cappone buono (il nostro, ovvio) contro uno cattivo (il loro).

Di fronte a un mondo che vuole cuocerci nel nostro brodo, ciò che conta allora non è riempire vuoti, ma costruire spazi dove lasciare che il dibattito possa maturare. Sarebbe già un bel passo per evitare la pentola.

La nostra società è stata costruita a partire da questa pluralità e non è certo stato un caso che il confronto diretto di idee e prospettive tra Giorgia Meloni ed Elly Schlein abbia giovato alle rispettive forze politiche nelle elezioni europee.

Tenendo a mente ciò, dovremmo allora finirla di considerare l’accapigliarsi come uno sterile diversivo, bensì come una pratica essenziale del processo democratico. In fondo nulla è ancora deciso: persino i capponi manzoniani non sono finiti sulla tavola dell’Azzeccagarbugli e chissà che, tornati nell’aia stanchi di beccarsi, non abbiano finalmente elaborato un piano per invecchiare in pace su quel ramo del lago di Como…

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