Il 2022 è stato un anno importante per le elezioni, con le presidenziali in Francia e la vittoria a metà di Emmanuel Macron e quella sul filo del rasoio di Lula in Brasile. Il 2023 non sarà da meno, in Europa si voterà in Polonia e Finlandia, due dei paesi più coinvolti nell’attuale crisi causata dall’invasione Russia dell’Ucraina. Ma si voterà anche in Nigeria, il paese più popoloso dell’Africa, e in Pakistan, una nazione dotata di armi nucleare oltre che il teatro di una della più gravi catastrofi climatiche degli ultimi anni. Ecco le otto elezioni più importanti del prossimo anno che abbiamo scelto per voi.

Nigeria

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Il paese più popoloso dell’Africa andrà al voto per scegliere il suo nuovo presidente il prossimo 25 febbraio. La Nigeria è un gigante con 211 milioni di abitanti, l’economia più grande del continente e ricco di risorse strategiche come gas e petrolio. È un paese descritto come dotato di enormi potenzialità, ma appesantito dalla corruzione endemica e dalla violenza: quella causata dal movimento fondamentalista Boko Haram e i ciclici scontri tra agricoltori del sud e allevatori del nord.

Il presidente in carica Muhammahu Buhari, un ex golpista che negli anni Ottanta è stato alla guida della dittatura militare, ha esaurito i suoi due mandati e il suo partito, il Congresso di tutti i progressisti, ha deciso di candidare Asiwaju Bola Ahmed Tinubu, ex governatore del Lagos, la regione più popolosa del paese.

La principale forza di opposizione è il Partito democratico del popolo che ha ricandidato lo sfidante sconfitto da Buhari nel 2019, l’ex vicepresidente Alhaji Atiku Abubakar: un esperto di presidenziali visto che è la quinta volta che si candida al ruolo (senza averlo mai ottenuto).

In tutto correranno altri 16 candidati, ma soltanto uno di loro ha qualche possibilità, anzi: più di una visto che al momento è considerato il favorito. Si tratta Peter Obi, ex candidato vicepresidente dell’opposizione nel 2019 e frontman del Partito laburista, una formazione che quattro anni fa aveva raccolto appena 5mila voti.

Obi si presenta come un candidato di rottura rispetto alla classe politica nigeriana. Imprenditore educato ad Harvard e personalmente molto ricco, coltiva un’immagine modesta e sobria, in contrasto con molti dei suoi rivali. Obi è particolarmente apprezzato tra i giovani più istruiti delle grandi città.

Finlandia

(AP Photo/Olivier Matthys)

Nemmeno i finlandesi considerano le loro elezioni particolarmente eccitanti, ma questa volta la maggioranza che uscirà dal voto di aprile si troverà a gestire almeno un paio di questioni fuori dall’ordinario: la delicata fase dell’ingresso della Finlandia nella Nato e le complicate relazioni con l’incombente vicino russo, con cui condivide un confine lungo quasi 1.500 chilometri.

Secondo i sondaggi, l’eterogenea coalizione di centrosinistra che sostiene il governo guidato dalla prima ministra socialdemocratica Sanna Marin dovrebbe conservare la maggioranza con circa il 50 per cento dei consensi. Ma con l’eccezione dei socialdemocratici, quasi tutti i partiti della coalizione soffrono di un lento e costante calo di consensi che potrebbe erodere il vantaggio sulla destra.

Destra che invece sembra avere vento a favore, con i conservatori del Partito nazionale, il principale partito di opposizione, passati dal 17 per cento delle ultime elezioni al 24 per cento che gli attribuiscono i sondaggi nelle ultime settimane. Nel frattempo, la destra radicale del Partito dei finlandesi è in crescita al 17 per cento.

Non è una possibilità da escludere che le prossime elezioni diano la maggioranza alla prima coalizione di destra nella storia della Finlandia, consentono così alla destra populista di arrivare al governo in un altro paese nordico, dopo aver messo già un piede nell’esecutivo svedese. Oppure potrebbe essere la coalizione di Marin, composta da cinque partiti, a rompersi causando un rimescolamento generale delle carte.

Turchia

Il 18 giugno l’opposizione turca si giocherà il tutto per tutto contro il presidente uscente Recep Tayyip Erdogan e le sue sempre più pronunciate tendenze autoritarie. Le speranze sono alte perché dopo vent’anni al governo, gli ultimi nel mezzo di una continua crisi economica e inflattiva, Erdogan sembra più debole che mai.

Sulla carta, l’opposizione radunata nel cosiddetto “tavolo dei sei” è in netto vantaggio ed è stimata tra il 50 e il 60 per cento dei voti, mentre a coalizione di Erdogan, formata dal suo partito islamico moderato Akp e dagli ultranazionalisti del Mhp, è data intorno al 40 per cento.

Ma l’opposizione deve fronteggiare il problema di quasi tutte le coalizioni che si oppongono a un leader rimasto al potere per una generazione: avere poco in comune oltre al desiderio di farlo fuori. Nel “tavolo dei sei” ci sono i repubblicani laici del Chp, i nazionalisti moderati dell’Iyi, diventati da poco una delle forze politiche più importanti del paese, poi un partito islamista, uno centrista e la mini-coalizione di sinistra radicale guidata dai curdi dell’Hdp.

Se il “tavolo” dovesse reggere, le possibilità dell’opposizione alle elezioni parlamentari sono buone. Anche perché la loro principale proposta, abolire la riforma presidenziale di Erdogan e ripristinare un sistema parlamentare, è condiviso dalla maggioranza dei turchi. 

Più imprevedibile invece l’esito delle presidenziali, anche perché l’opposizione deve ancora presentare il suo eventuale candidato unitario. Nel frattempo i sondaggi attribuiscono ad Erdogan più o meno gli stessi voti che danno all’Akp. 

Resta inoltre da capire quanto saranno davvero libere queste elezioni. Non solo i principali media sono sotto controllo del governo, ma ci sono centinaia di giornalisti, politici e attivisti in prigione. La magistratura ha da poco condannato a oltre due anni di carcere Ekrem İmamoğlu, sindaco di Istanbul e uno dei possibili candidati dell’opposizione.

Grecia

(AP Photo/Yorgos Karahalis)

Elezioni parlamentari previste per il mese di luglio in Grecia. Riuscirà il centrodestra sempre più destra di Nuova democrazia a confermarsi alla guida del governo o vedremo un ritorno di Alexis Tsipras e della sinistra di Syriza? Dopo la riforma voluta proprio da Tsipras, queste saranno le prime elezioni nella storia recente del paese a disputarsi senza premio di maggioranza, una meccanismo elettorale praticamente unico che, fino a poco tempo fa, era condiviso con l’Italia.

Per ora i sondaggi danno in vantaggio il centrodestra con più del 35 per cento dei consensi. Syriza è alla rincorsa, ma negli ultimi quattro anni non è mai riuscita a superare il 30 per cento. È invece tornato competitivo il vecchio Pasok, il partito di centrosinistra che dopo essere stato egemone per una lunga stagione politica era stato spazzato via dalla crisi del debito 2012. Dato dai sondaggi sopra il 10 per cento, potrebbe rivelarsi l’inaspettato ago della bilancia per decidere il prossimo governo.

Chiunque andrà al governo avrà due questioni importanti da affrontare: l’eterna questione della gestione dei migranti, con la ripresa degli arrivi dalla Turchia e i rapporti sempre più tesi proprio con il vicino che andrà al voto poco settimane prima.

Pakistan

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In Pakistan si voterà entro il 13 ottobre nel mezzo di una serie di crisi politiche e climatiche. Ad aprile, il primo ministro ed ex campione di cricket Imran Khan si è dovuto dimettere a causa di un voto di sfiducia a cui sono seguite settimane di proteste dei suoi sostenitori.

È una situazione da tenere d’occhio quella del Pakistan. Con 225 milioni di abitanti, è uno dei paesi musulmani più popolosi al mondo. È dotato di armi atomiche ed è impegnato in una decennale rivalità con la vicina India. I suoi servizi segreti sono molto attivi in Afghanistan e hanno forti rapporti con i talebani. Il Pakistan, inoltre, si trova in una posizione strategica, all’incrocio degli interessi geopolitici di Stati Uniti, Cina e Russia.

Khan, che ha accusato proprio gli Stati Uniti di aver manovrato dietro le quinte per farlo cadere a causa della sua politica favorevole a Cina e Russia, ha tutta l’intenzione di ricandidarsi. La Lega musulmana, il più antico partito del paese, candiderà con ogni probabilità l’attuale primo ministro Shehbaz Sharif o il fratello ed ex primo ministro Nawaz. Probabilmente è destinato ad arrivare terzo il Partito del popolo pakistano, guidato da Asif Ali Zardari, vedovo dell’ex prima ministra Benazir Bhutto, deposta da un colpo di stato e uccisa in un attentato nel 2007. 

Violenze e brogli elettorali hanno spesso influito sulle passate elezioni, così come il coinvolgimento dei militari. Ma quest’anno ci sarà un’ulteriore problema: le conseguenze delle enormi alluvioni che hanno colpito il paese questa estate, mandando sott’acqua quasi il 10 per cento del paese, comprese le aree più fertile, e colpendo quasi 30 milioni di abitanti.

Argentina

(AP Photo/Natacha Pisarenko)

Gli argentini vincitori della Coppa del mondo di calcio saranno chiamati al voto per rinnovare il parlamento ed eleggere il nuovo presidente il prossimo 29 ottobre. Per il continente sudamericano, il voto sarà una nuova prova per la crescente “marea rosa”: la serie di vittorie di partiti della sinistra che negli ultimi anni sono andati, o tornati, al governo dal Messico al Cile e dal Brasile alla Bolivia.

Nel caso dell’Argentina, una vittoria della sinistra sarebbe più che altro una conferma di una tendenza già iniziata. Si fronteggeranno tre principali coalizioni: il fronte di tutti di centrosinistra, che al momento esprime il presidente uscente Alberto Fernandez e la Giunta per il cambiamento di centrodestra. Il nuovo arrivato nella competizione si chiama La libertà avanza, un nuovo partito di destra radicale e libertaria nato nel 2021 e guidato dal populista Javier Milei, un economista e deputato da molti paragonato a una versione argentina di Javier Bolsonaro o Donald Trump.

Milei ha il vantaggio di essere uno dei pochi ad avere già la candidatura praticamente assicurata. Nella Giunta per il cambiamento ci sono parecchi leader che si sfidano per la posizione, mentre nel Fronte di tutti la ricandidatura di Fernandez non è scontata.

Cristina Fernández de Kirchner, veterana della politica argentina e presidente tra il 2007 e il 2015, è intenzionata a candidarsi, anche se prima dovrà risolvere il problema della sua recente condanna per corruzione che le impedisce di ricoprire incarichi pubblici. Se non Kirchner, l’attuale presidente rischia di essere sfidato dal suo ministro dell’economia, Sergio Massa.

Polonia

(AP Photo/Francois Mori)

La Polonia andrà al voto il prossimo autunno in una situazione per certi versi simile a quella della Turchia: un partito di governo, il Pis, al potere da quasi 20 anni e con tendenze autoritarie, un’opposizione che cerca di unirsi per avere qualche possibilità di cambiare un esito elettorale che rischia di essere scontato. Se il governo polacco non è ancora al punto di far arrestare gli oppositori come Erdogan, i rivali del Pis non possono però contare sull’aiuto fornito dalla lunga crisi economica che sta danneggiando i consensi del presidente turco. 

Anzi, la Polonia è in crescita da anni e l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha alimentato i sentimenti nazionalisti incarnati dal Pis. Ma la lunga permanenza al governo ne ha comunque logorato i consensi. I sondaggi danno il Pis intorno al 35 per cento, otto punti in meno di quanto raccolto quattro anni fa.

Il principale blocco di opposizione, Piattaforma civica, è invece dato allo stesso risultato delle precedenti elezioni: il 25 per cento. Un aiuto determinante sembrava potesse arrivare nuova lista centrista Polonia 2050, che nei mesi scorsi aveva superato il 20 per cento nei sondaggi, ma che oggi è ridotta a poco più del 10.

Aggiungendo a questi due partiti anche i voti della sinistra, circa il 10 per cento, l’opposizione potrebbe mettere seriamente in difficoltà il Pis. La domanda che gli osservatori si fanno è se il capo di Po, l’ex presidente del consiglio dell’Unione europea Donald Tusk, riuscirà a riunire queste forze disparate che, almeno sulla carta, rappresentano più della metà degli elettori del paese. Oppure se la grande coalizione non si riuscirà a fare e il Pis potrà conquistare di nuovo una maggioranza parlamentare, pur controllando appena il 40 per cento dei voti.

Spagna

(Europa Press via AP)

Entro il prossimo dicembre gli spagnoli torneranno al voto con ancora in mente il ricordo del 2019, quando sono andati a votare ad aprile e poi di nuovo novembre a causa delle difficoltà dei partiti a formare una maggioranza di governo.

Dopo lugno tribolare, dal secondo voto di novembre era uscito il primo governo di coalizione nella storia del paese, guidato dal primo ministro Pedro Sanchez e sostenuto dai socialisti del Psoe e dalla coalizione di sinistra Unidos Podemos.

Anche le prossime elezioni si annunciano complicate per coloro che amano conoscere il governo «la notte del voto». Il Psoe è dato intorno al 25 per cento e Up al dieci: numeri che rendono difficile raggiungere una maggioranza autonoma. D’altro canto anche il Partito popolare è molto lontano dai risultati che otteneva una decina di anni fa e che consentivano regolarmente la formazione di governi monocolore. Gli ultimi sondaggi danno i popolari poco sopra al 30 per cento. Difficile per loro trovare alleati verso il centro: i liberali di Ciudadanos sono sostanzialmente spariti e rischiano di non eleggere nemmeno un parlamentare.

Rimane solo la destra radicale di Vox che i sondaggi danno sistematicamente più vicina al 15 per cento che al 10. Ma i popolari accetteranno di formare un governo di coalizione con uno dei partiti di destra più populisti d’Europa? Manca ancora un anno alle elezioni e molto può cambiare, ma senza grandi sconvolgimenti il punto centrale resterà questo.

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