Attorno alle otto di domani sera, quando in Italia sarà mezzanotte, si conoscerà il nome del vincitore delle elezioni presidenziali in Brasile, risultato del duello finale tra l’uscente Jair Bolsonaro e lo storico leader della sinistra Luiz Inácio Lula da Silva. Al momento tutto lascia credere che la formidabile velocità del sistema elettronico brasiliano offrirà numeri precisi, ma non una certezza politica; e darà più che altro la risposta al dubbio su chi tra i due è l’uomo meno odiato su un territorio sterminato come un continente.

Quanto al fatto che il risultato proclamerà in modo indiscutibile il presidente del paese dal gennaio 2023 al dicembre 2026 è invece legittimo dubitare. Perché il clima tossico e violento delle quattro settimane indica che la disfida potrebbe non finire in pace. Ci sarà con ogni probabilità, come l’hanno battezzato gli analisti politici brasiliani, “un terzo turno”.

Uno strascico, insomma, vedremo se soltanto polemico o anche violento. Venerdì sera, al termine dell’ultimo faccia a faccia tra i due alla tv Globo, Bolsonaro ha finalmente affermato che «la vittoria sarà di chi ha più voti», senza condizioni. Durante la campagna aveva invece subordinato l’accettazione della sconfitta solamente “a elezioni pulite”, qualsiasi cosa questo significhi. Vedremo se manterrà l’ultima parola.

Sondaggi e fake news

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Decine sono stati i sondaggi sul risultato finale a partire dallo scorso 2 ottobre, quando gli elettori hanno mandato al ballottaggio Lula con il 48,4 per cento dei voti e Bolsonaro con il 43,2. Tutti praticamente sostengono che oggi Lula è favorito, con un distacco variabile ma netto. Tra i quattro e gli otto punti in media.

Le oscillazioni sono state minime lungo le quattro settimane di aspra battaglia politica tra i due contendenti, dentro le forbici della statistica. Bolsonaro ha inizialmente usato l’argomento che i sondaggi sbagliano (al primo turno, in effetti, alcuni hanno sottostimato il suo risultato), tentando persino di far approvare al volo una improbabile legge per punire gli istituti che diffondono numeri che poi si rivelano errati.

Poi, crescendo la disperazione per l’inefficacia della sua propaganda elettorale e dei confronti in tv con l’avversario, ha ordinato ai suoi di sfoderare l’arma che più di ogni altra gli permise la vittoria di quattro anni fa: quella delle fake news. Senza vergogna e moderazione.

Imbastendo nel frattempo la madre di tutte le balle, e cioè che non solo i sondaggi sono falsi ma lo sarà anche il risultato del ballottaggio se dovesse essergli sfavorevole. Perché il sistema elettronico è fallace, e gli uomini di Lula sono in grado di manometterlo a proprio favore. Le folle in maglietta verde-oro inneggianti a Bolsonaro mostrano chiaramente che il Brasile vuole la rielezione del suo capitano, non il ritorno del “bandito” Lula, è la tesi del presidente in carica.

Controlli

Mateus Bonomi/AGIF

La differenza rispetto a quattro anni fa è che stavolta l’authority elettorale e la Corte suprema non sono rimaste a guardare. Una sorta di compensazione per le evidenti irregolarità nella scorsa elezione, quando la valanga di fake news pagate dal bolsonarismo e che invasero soprattutto WhatsApp furono accertate molti mesi dopo la proclamazione della vittoria, ma perdonate con una sorta di “per questa volta passi”.

Guidato dal giudice Alexandre de Moraes, bersaglio da anni delle ire di Bolsonaro, il tribunale elettorale stavolta è intervenuto come una sorta di implacabile Var, monitorando gli spot della propaganda tv e soprattutto la rete, dai video su YouTube alle storie di Instagram, ordinando ai social rimozioni di contenuti e decidendo minuti di compensazione in tv e alla radio per la parte lesa da diffamazione.

Anche la propaganda di Lula ha ricevuto qualche cartellino rosso, ma il confronto è impietoso: la stragrande maggioranza degli interventi è stata sui contenuti della macchina di propaganda di Bolsonaro, soprattutto per quanto riguarda gli attacchi personali all’avversario.

Con il demonio

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Durante il mese l’offensiva della destra ha spaziato da vicende di cronaca del recente passato, a partire dai guai giudiziari di Lula, fino a fatti inventati di sana pianta, con risvolti umoristici. C’è stata la fase del satanismo, quando a Lula sono stati contestati rapporti intimi con il demonio.

L’argomento ha permesso di riproporre un classico della propaganda di destra, e cioè che l’avversario avrebbe intenzione di far chiudere le chiese evangeliche, baluardi del conservatorismo.

Per qualche giorno, poi, i social sono stati invasi da un appello delle gang criminali delle carceri sul voto a Lula, e sul legame tra un cartello mafioso di narcos e il Partito dei lavoratori. Tutto falso, ha stabilito l’authority elettorale, e da rimuovere.

Le compensazioni

Quasi sempre è stato impossibile tenere testa al real time della rete: è stato calcolato per esempio che il video del voto a Lula nelle carceri è stato online soltanto per 14 ore ma ha raccolto un milione e mezzo di visualizzazioni.

Senza considerare che poi il contenuto è rimbalzato chissà quante volte sulle reti chiuse come i gruppi WhatsApp e Instagram, dove le autorità non sono in grado di intervenire. Fino a sabato scorso, cioè una settimana prima del voto, il tribunale elettorale aveva concesso a Lula ben 116 diritti di risposta, che corrispondono a 30 o 60 secondi di inserzioni alla radio o in televisione.

Il danno per l’avversario è notevole: poiché la legge prevede spazi uguali, le compensazioni per fake news nei giorni decisivi della disputa hanno sbilanciato di parecchio la propaganda a favore di Lula.

Censura?

Mateus Bonomi/AGIF

Per Bolsonaro tutte queste decisioni portano un solo nome: censura. Il presidente in carica ha scatenato eserciti di legali e gli uomini della giustizia che controlla (come il procuratore generale dello stato) per cercare di rispondere alle dure decisioni a suo sfavore. Ma ha perso quasi sempre.

Non ha retto l’argomento che le fake news sono di difficile definizione, o che le norme elettorali non chiariscono i confini della propaganda. E poi come è possibile non poter chiamare Lula “bandito” o “ex carcerato”, se l’avversario è stato condannato in vari gradi di giudizio prima di essere salvato da “giudici amici”?

Per tutta risposta alle accuse di parzialità i giudici elettorali si sono assegnati ancora più poteri, come quello di poter agire d’ufficio senza una denuncia, o concedere soltanto due ore per rimuovere un contenuto sui social.

Negli ultimi giorni, il ministro delle comunicazioni ha lanciato un’altra accusa pesante: le radio del nordest del Brasile, dove i consensi a Lula sono al massimo, si sarebbero rifiutati di mandare in onda 154mila spot gratuiti ai quali Bolsonaro ha diritto per legge. Per mancanza di prove, ancora una volta, l’accusa è stata archiviata.

Il caso Jefferson

L'ex membro del Congresso brasiliano Roberto Jefferson (FABIO MOTTA/picture-alliance/dpa/AP Images)

Ma nulla ha danneggiato tanto Bolsonaro nella retta finale della campagna come la vicenda surreale di Roberto Jefferson, un ex deputato estremista a lui assai vicino, al quale le fake news e le minacce contro il sistema democratico hanno creato problemi seri.

Già arrestato e poi mandato ai domiciliari, qualche giorno fa ha accolto a colpi di fucile e granate i poliziotti che si erano recati a casa sua per riportarlo in carcere. Bolsonaro ha preso le distanze da Jefferson, ma l’affermazione di non conoscerlo quasi è apparsa subito inverosimile.

L’invasione delle armi da fuoco nella contesa, al di là delle numerose risse da bar che si sono registrate in tutto il Brasile, suona ancora per alcuni osservatori come la conferma di un gran finale all’americana, non alla Hollywood ma sulle tracce del tentativo disperato di Donald Trump a Capitol Hill dopo la sconfitta contro Joe Biden. Non resta che aspettare i fatti, e naturalmente la decisione degli elettori.

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