Vincere le elezioni, come ha fatto Recep Tayyip Erdogan, con l’inflazione al 40 per cento è un’impresa storica. Ma quando si esauriscono le riserve in valuta estera per mantenere il cambio a livelli accettabili non ci sono più alternative se non vuoi diventare un basket case, uno stato fallito costretto a ricorrere ai prestiti del Fmi.

Così la Banca centrale turca ha messo fine alla politica populista del presidente Erdogan in materia monetaria e ha alzato il tasso di interesse di 650 punti base portandolo al 15 per cento. Una svolta voluta dalla nuova governatrice, Hafize Gaye Erkan, volto ben noto a Wall Street dove ha lavorato per anni nelle principali istituzioni creditizie tra cui Barclays Capital, Goldman Sachs e Citigroup.

La Banca centrale turca non alzava il costo del denaro dal marzo del 2021. Negli ultimi anni li aveva sempre tagliati su pressioni del presidente Erdogan provocando una svalutazione della lira mentre alimentava l'inflazione che a maggio si attestava sul 40 per cento annuo.

La scelta adottata (finalmente ortodossa) è una inversione a U con la politica economica che Erdogan aveva imposto all'istituto bancario, chiedendo tagli ai tassi pur in presenza di fiammate di inflazione. Dopo la riconferma per la terza volta con la vittoria al ballottaggio del 28 maggio, il presidente turco ha imboccato (per ora) la scelta dell’ortodossia economica scegliendo di cambiare il ministro del Tesoro, nella figura di Mehmet Simsek, ex banchiere di Merrill Lynch, un economista che gode di stima internazionale e prima del 2018 aveva già guidato il timone delle Finanze, quando l'economia turca cresceva a livelli cinesi e la lira si manteneva su livelli stabili.

Un rialzo troppo cauto

Tutto bene, dunque? Non proprio. Alcuni analisti hanno affermato che la mossa suggerisce che la governatrice Erkan potrebbe avere uno spazio limitato per affrontare in modo aggressivo l'inflazione sotto la severa sorveglianza di Erdogan, visto che un sondaggio Reuters alla vigilia della decisione prevedeva che i tassi salissero al 21 per cento. Che la mossa non sia stata ritenuta sufficiente dai mercati è risultato evidente quando, dopo la decisione, la lira ha iniziato a scendere, toccando il minimo di 24,60 sul dollaro. Non esattamente un segnale confortante.

La situazione è molto complessa. L'inflazione annua, a maggio, si è attestata appena sotto il 40 per cento, dopo aver toccato l'85 per cento, il massimo da 24 anni a questa parte, nell'ottobre dello scorso anno. Inoltre la maggioranza delle banche centrali nel mondo (con l’esclusione di quella cinese) hanno affermato che l'inflazione subirà ulteriori pressioni al rialzo. Non a caso la Bank of England ha alzato ieri i tassi di 0,5 punti percentuali portandoli al 5 per cento.

La politica di Erdogan ha provocato una crisi valutaria alla fine del 2021 e alimentato la corsa dei prezzi con pesanti ricadute sul potere di acquisto dei turchi. La lira ha perso il 44 per cento nel 2021 e il 30 per cento lo scorso anno, nonostante la banca centrale, per stabilizzare il cambio, abbia dovuto utilizzare le sue riserve di valuta forte. Gli economisti nel sondaggio Reuters si aspettano ulteriori aumenti dei tassi a fine anno al 30 per cento.

Le riserve al minimo

Certo la Turchia ha bussato alle porte dei Paesi del Golfo e in particolare del Qatar per avere sostegno alla sua moneta con prestiti swap. Ma le riserve nette della banca centrale turca sono scese al minimo storico di 5,7 miliardi di dollari negativi il mese scorso prima di rimbalzare quando ha allentato la presa sul mercato dei cambi. La lira ha perso il 23% quest'anno.

A preoccupare ci sono anche i credit default swap (CDS) della Turchia, il costo per assicurare l'esposizione al proprio debito, sono aumentati di 21 punti base a 518 punti base dopo l'aumento dei tassi. Un segnale inquietante. Sono in molti a non credere sull'impegno di Erdogan ad abbandonare la sua non ortodossa posizione.

Il ministro Simsek e la governatrice Erkan sperano che gli investitori internazionali tornino nel paese. La Turchia soffre storicamente di un pesante deficit cronico delle partite correnti pari al 5 per cento annuo e necessita di capitali stranieri e investimenti diretti per ripianare il divario.

A spaventare gli investitori erano state alcune promesse elettorali molto impegnative del presidente Erdogan, come quella che a dicembre scorso aveva concesso il pensionamento anticipato a circa  due milioni di turchi abolendo nei fatti il limite dell’età pensionabile (di 58 anni per le donne e 60 per gli uomini) e sostituendolo con una anzianità minima di contributi previdenziali. Una scelta che ha allontanato molti capitali internazionali per i suoi possibili effetti sulla stabilità dei conti pubblici.

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