È dal 7 ottobre, il giorno dell’attacco di Hamas a Israele, che pressoché quotidianamente ci si interroga su un allargamento dell’incendio mediorientale dandolo spesso per scontato e pronosticando sullo sfondo la resa dei conti finale tra le due potenze dell’area, Israele e Iran. Salvo essere regolarmente confortati dalle parole e smentiti dai fatti. Gli ayatollah non hanno nessuna intenzione di iniziare una guerra con lo Stato ebraico e vale anche al contrario. Si punzecchiano, si provocano, ma con la chiara intenzione di fermarsi sull’orlo dell’abisso.

Teheran avrebbe avuto, se davvero ne fosse stato a caccia, diversi pretesti per accendere la miccia. Il più eclatante: l’uccisione il giorno di Natale a Damasco durante un raid aereo di Razi Moussavi, generale delle guardie rivoluzionarie dei Pasdaran.

Il presidente della repubblica teocratica Ebrahim Raisi aveva usato parole di fuoco: «Senza dubbio questo atto malvagio è un altro segno della frustrazione del regime sionista usurpatore nella regione, che pagherà sicuramente per questo crimine».

Moussavi era un «coraggioso e valoroso compagno d’armi del generale martire Hajj Qassam Soleimani», ucciso il 3 gennaio 2020 a Baghdad su ordine partito direttamente da Donald Trump, architetto della strategia del terrore e tessitore della dorsale sciita che dal Golfo Persico arriva fino al Mediterraneo grazie alle alleanze strette in Yemen, Iraq, Siria e Libano.

È stato proprio durante la commemorazione della sua scomparsa che due bombe sono esplose nella zona del cimitero di Kerman provocando 84 morti e centinaia di feriti. Nonostante il frettoloso tentativo di attribuire al binomio Israele-Usa la paternità dell’attentato, è sembrato subito chiaro che le modalità erano piuttosto riconducibili a quel che resta dello Stato islamico, sunnita, contro il paese faro degli sciiti: esiste ancora lo scontro fratricida tutto interno al mondo islamico che si trascina dagli anni Dieci di questo millennio a complicare il quadro dell’area più infiammata del pianeta.

Se gli ordigni al cimitero non possono essere attributi al nemico storico, Teheran avrebbe avuto molte altre occasione in questi tre mesi per farsi bellicoso. L’invasione della Striscia di Gaza, le migliaia di morti civili, le uccisioni in Cisgiordania da parte dei coloni. Ma gli ayatollah si sono limitati a slogan triti invocando, come fanno da sempre, la «distruzione dello Stato ebraico», «l’espulsione di tutti gli ebrei dal Medio Oriente».

Dimostrando così un pragmatismo ereditato dalla millenaria esperienza dell’impero persiano. Non si comincia un conflitto se si sa di non poterlo vincere come nel caso attuale. Ci si limita a una guerra di parole, peraltro non sempre coerenti, se dapprima i vertici del regime si sono lamentati con Hamas per essere stati, dissero, tenuti all’oscuro del progetto 7 ottobre, salvo rivendicarne la paternità come vendetta servita a freddo, quattro anni dopo, per l’omicidio Soleimani.

Per mascherare la propria debolezza, frutto anche delle rivolte interne guidate soprattutto dalle donne, hanno preferito delegare ad alcuni alleati il compito di esplicitare la solidarietà con le sofferenze palestinesi attraverso azioni dimostrative. Come le scaramucce endemiche sul confine libanese, dove nemmeno Hezbollah può permettersi di spingersi oltre, perché passi troppo arrischiati potrebbero indurre Israele a un attacco massiccio contro un paese già allo stremo delle forze causa la spaventosa crisi economica. O come i droni sparati dagli Houti yemeniti verso Israele e le navi di passaggio.

Certo, giocando col fuoco la situazione può sempre scappare di mano anche contro la propria volontà. Non siamo ancora a quel punto.

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