Giovedì 2 maggio si vota in Inghilterra e Galles. Sono elezioni locali: verranno rinnovati parzialmente o completamente i consigli comunali di oltre 30 città medie e grandi, fra cui Manchester, Leeds e Bristol, borghi metropolitani come Northy Tyneside e Dudley e, soprattutto, la London Assembly, una sorta di città-stato che rappresenta una fetta importante dell’elettorato britannico.

La rielezione di Sadiq Khan alla guida di Londra è il test centrale, sia perché seppur in vantaggio il sindaco laburista potrebbe rischiare di perdere voti nella diaspora interna della sinistra, sia perché Londra raccoglie tutte le tensioni politiche e sociali indotte dalla Brexit.

Si terrà inoltre nel collegio di Blackpool Sud l’ennesima suppletiva per Westminster, ormai la ventitreesima di questa legislatura per sostituire il parlamentare conservatore di turno dimessosi, come molti altri prima di lui, per corruzione. A parte la vittoria a Rochdale di George Galloway in febbraio, personaggio strambo dal passato a sinistra che dopo una infelice uscita del candidato laburista poi scomunicato dal partito ha preso al volo l’occasione per fare una campagna elettorale contro le posizioni laburiste “filoisraeliane”, galvanizzando il voto di protesta in un collegio a maggioranza musulmana, nelle tornate elettorali degli ultimi due anni il Labour ha fatto man bassa di voti. Non sono tuttavia semplici elezioni amministrative.

Potrebbero essere la prima solida conferma di quello che i sondaggi vanno pronosticando da tempo: in testa di oltre 20 punti, dopo 13 anni i laburisti dovrebbero tornare a Downing Street con una strabordante maggioranza che rischia di spazzare via il più antico partito europeo. Ultima in ordine di tempo la proiezione di YouGov pubblicata il 3 aprile, che assegna al Labour 403 seggi contro i 155 dei tories, corrispondenti al 41 per cento del voto popolare che se confermato supererebbe anche le percentuali ottenute da Corbyn nel 2017. Facile ritenere che questa sia la grande speranza di Starmer: mettere la definitiva pietra tombale sul corbynismo. Non se la dovrebbero cavare male neanche i Liberaldemocratici, che capitalizzano in parte la radicalizzazione a destra dei conservatori (circa 40 seggi), mentre lo Scottish National Party pur resistendo dovrà incassare gli ultimi residui della pessima uscita di scena dell’ex leader Nicola Sturgeon.

Insomma, non ci sarebbe storia: se sarà fra maggio e giugno, in base a quanto negativi saranno i risultati di queste elezioni locali, oppure a scadenza naturale entro la fine dell’anno, il parlamento sarà finalmente sciolto e questa lunga agonia si concluderà. Lo scrivono pure il Financial Times e il Daily Telegraph: per il primo ministro Rishi Sunak è finita. E anche per i conservatori, sia che cambino leader – una opzione che per quanto paradossale non è ancora stata completamente esclusa – sia che riescano a recuperare nei confronti di Reform, il partito di destra estrema a cui fa ora riferimento Nigel Farage. Una recente campagna “dal basso” per deselezionare i parlamentari candidabili alle prossime elezioni vicini a Sunak e alla destra conservatrice è stata lanciata dagli esponenti di centro del partito. Una notizia già di per sé, questa, per un partito come quello conservatore che ha raramente coinvolto la base nelle proprie strategie elettorali. Il distacco sembra però ormai irreversibile.

Le variabili

Ma si tratta solo di sondaggi, non va dimenticato. La situazione, ovviamente, non è così semplice e diretta per il Labour. Un numero consistente di variabili potrebbe influire: lo scarto della maggioranza potrebbe essere di molto minore a causa della dispersione del voto di sinistra verso candidati o partiti di protesta che in un sistema maggioritario secco ha sempre una notevole importanza; oppure un astensionismo generico. La cautela con cui Starmer sta sagomando la sua leadership, ovvio, si spiega in questo perimetro.

Ma gli errori si pagano: l’attrito scatenato dal sostegno a Israele dopo i fatti dello scorso ottobre non svanirà molto presto. Anche il recente apprezzamento della “rivoluzione” thatcheriana, pur con tutti i distinguo possibili, fatto da Starmer e confermato da Rachel Reeves e David Lammy, rispettivamente in corsa per lo Scacchiere e gli Esteri, non è facile da digerire per un elettorato laburista che aveva nell’antithatcherismo la stessa componente identitaria che la sinistra italiana aveva per l’antiberlusconismo. Auguriamoci che i primi non facciano la stessa fine della seconda. Ci saranno molte occasioni per commentarne gli sviluppi, e lo faremo seguendo questa che, iniziata ora, sembra già essere una delle campagne elettorali più lunghe e spietate della storia politica britannica.

In questo anno di elezioni importanti, da quella per il parlamento europeo alla statunitense, quello che accadrà oltremanica credo non vada sottovalutato. Anzitutto, molte delle tensioni che prima si sfogavano grazie al proporzionale nel parlamento europeo in questo 2024 invece saranno tutte indirizzate a Westminster. La Brexit, o meglio le conseguenze dell’uscita dall’Unione europea, non è tema elettorale, ma è certamente quell’elefante nella stanza che nessun sondaggio è in grado di quantificare. Il nuovo parlamento inglese assorbirà, non importa per ora nel quadro di questo articolo se direttamente rappresentandole o implicitamente respingendole replicando un parlamento lontano anni luce dalla realtà come è questo ancora in carica, quelle trasformazioni in atto nella società e nel sistema politico britannico sconquassati da crisi economica e inflazione, irrilevanza internazionale e mutamenti culturali profondi.

I mutamenti

Solo per citare due minimi ma non trascurabili esempi: il sistema universitario sta subendo una trasformazione strutturale radicale, dovuta a un incrocio di fattori che vanno dal calo degli studenti stranieri al taglio di risorse finanziarie, il cui impatto sul tessuto socio-culturale segnerà profondamente i prossimi decenni.

In parallelo, la crescita di nuovi news-channel come Gbnews dedicati espressamente a un pubblico della provincia profonda entusiasticamente isolazionista, un po’ xenofobo e visceralmente anti immigrazione, dalle più o meno esplicite nostalgie imperiali, rappresenta un altrettanto sostanziale cambiamento nella costruzione del discorso pubblico, e quindi della sua futura traduzione nell’arena politica.

In questo quadro, tuttavia, se le elezioni di maggio e i sondaggi lo confermeranno, il Regno Unito sta andando a sinistra. Quale sinistra e che prospettive di futuro avrà il progetto di Starmer è altra cosa; e lo racconteremo. Ma banalizzare la trasformazione del partito, l’immagine proiettata verso l’esterno e la ristrutturazione dei quadri interni che Starmer e la sua squadra hanno fatto in questi due anni e mezzo come un semplicistico ritorno al blairismo senza tener conto di un contesto che si sta rattrappendo e insterilendo, come si legge su molte cronache affrettate sull’oltremanica, è miope e storicamente ottuso. Un po’ come se, mettendomi la minigonna a 50 anni, credessi di essere più giovane. La vera domanda che andrebbe fatta in realtà è quanto il New Labour fosse parte della tradizione del laburismo inglese, quali continuità e fratture di quella storia esprimeva, quali consonanze con la vicenda della sinistra (radicale e socialdemocratica) europea intratteneva. Senza questa cornice, non si capisce molto di cosa sta esattamente succedendo a Londra e dintorni.

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