«Nessuno può prevedere come inizia una rivoluzione. Né può sapere quando un’ingiustizia farà in modo che la furia di un popolo superi la sua paura». Così scriveva a fine settembre 2022 la giornalista americana-iraniana Roya Hakakian sull’Atlantic

Erano i giorni dell’inizio delle proteste dopo l’uccisione di Mahsa Jîna Amini, la ventiduenne curda morta il 16 settembre all’ospedale Kasra di Teheran. L’episodio era stato definito dalla guida suprema dell’Iran, ‘Alī Khāmeneī, «un terribile incidente, un evento doloroso».

In realtà Mahsa Amini era stata caricata su una camionetta e portata in un centro di riabilitazione, dove le chadorì (termine che in questo caso indica le filogovernative con lo chador nero integrale) insegnano alle bad-hejabi (le mal velate) come indossare il velo.

Dopo essere stata picchiata è entrata in coma ed è morta. Nel giro di qualche giorno ottanta città e quasi tutte le province iraniane sono state coinvolte nelle manifestazioni, che si sono allargate ovunque: le strade e le piazze di tutto il mondo si sono riempite al grido di «woman, life, freedom».

I motivi delle manifestazioni

EPA

Subito dopo il 16 settembre le proteste hanno chiesto giustizia per la morte della ventiduenne curda. Con il tempo hanno assunto sempre più un carattere intersezionale. Non rivendicando solo maggiori libertà personali e diritti civili, ma anche economici e sociali per tutti.

I manifestanti hanno dato voce a un dissenso più ampio rivolto contro Khāmeneī e, più in generale, contro la Repubblica islamica. Come scrive la giornalista Farian Sabahi in Noi donne di Teheran (2022), «contestano la mala gestione della cosa pubblica ed esprimono preoccupazione per la disoccupazione e l’inflazione. In prima linea ci sono i giovani, anche adolescenti: non vedono prospettive, sanno che i loro sogni verranno spenti da un regime autoritario».

Cosa è successo quest’anno

«Le proteste in Iran continuano ancora oggi. Però la forma delle manifestazioni di massa nelle strade si è trasformata – dice l’attivista iraniana Rayhane Tabrizi – diventando disobbedienza sociale attuata principalmente dalle donne. Continuano a distribuire volantini, scrivere sui muri slogan, urlare dalle finestre la sera, svuotare i conti correnti per creare una debolezza economica nella struttura del regime. Il popolo iraniano non si è fermato, adesso agisce in profondità, anche creando contatti con politici e giornalisti».

Le donne cercano, nonostante tutti i rischi, di sfidare il regime, anche rimanendo in pubblico senza il velo e indossando la gonna. «Questa disobbedienza è un atto fortemente politico. Il regime in risposta ha introdotto multe pesanti, frustate e incarcerazioni da cinque a dieci anni».

Armita Geravand, 16 anni (NPK via Ansa)

Nel 2023 è successo ciò che era già accaduto nel 2022. Questa volta il nome è quello della sedicenne Armita Geravand. Dopo essere stata ferita da un’addetta al controllo delle leggi sul velo in un vagone della metropolitana di Teheran, aveva perso conoscenza ed era entrata in coma.

È stata sepolta nella capitale il 29 ottobre sotto la sorveglianza delle autorità. Secondo quanto riporta Radio free Europe, il giorno del funerale circa quindici persone sono state picchiate e arrestate, tra queste c’era anche Nasrin Sotoudeh, avvocata e attivista per i diritti umani, vincitrice del premio Sacharov nel 2012.

Armita è solo uno dei tanti nomi di giovani, uomini e donne, uccisi perché non hanno rispettato le regole della morale e le imposizioni del regime. Un anno dopo l’inizio delle proteste il bilancio è di 23.497 persone arrestate, 639 uccise, di cui 79 minori (dati della Foundation for defense of democracies aggiornati al 17 dicembre).

Inoltre, si contano sette vittime giustiziate in relazione alle proteste secondo la commissione d’inchiesta internazionale indipendente nominata dalle Nazioni Unite. La pena di morte è utilizzata come strumento di repressione e paura, alcune delle vittime sono state uccise come punizione anche per reati minori, come il danneggiamento di beni pubblici.

A questi numeri si aggiungono maltrattamenti, torture, stupri delle detenute e intimidazioni nei confronti delle famiglie che chiedono verità e giustizia. La portata delle violenze sessuali è difficile da stimare perché molte vittime non si rivolgono alle autorità per denunciare. Nonostante ciò, Amnesty International ha documentato almeno 45 casi in più della metà delle province iraniane.

Nei mesi scorsi, inoltre, centinaia di scuole in tutto il paese hanno riportato più di un migliaio di casi di avvelenamento probabilmente da gas tossico diffusi soprattutto tra le ragazze, causando il ricovero di alcune di loro in ospedale con sintomi respiratori e neurologici. L’obiettivo al momento rimane ignoto, ma l’ipotesi è quella di intimidazione nei confronti delle studentesse, protagoniste delle proteste contro il regime.

Nei mesi anche l’attacco ai diritti umani e civili di donne e uomini è continuato. Secondo Iran human rights, diciotto donne sono state giustiziate nel 2023. L’ultima è stata Samira Sabzian, il 20 dicembre, una donna costretta a sposarsi all’età di 15 anni e vittima di violenze domestiche accusata di aver avvelenato il marito.

Tra il 2010 e il 2021 sono state condannate a morte almeno 164 donne, nel 66 per cento dei casi la motivazione era quella di aver ucciso il marito o il partner. Un dato che contribuisce a rendere la Repubblica iraniana il paese con il più alto numero di esecuzioni pro capite a livello mondiale.

I riconoscimenti

Che la situazione in Iran sia stata centrale a livello globale quest’anno l’hanno dimostrato due tra i più importanti riconoscimenti mondiali: il premio Nobel per la pace e il premio Sacharov per la libertà di pensiero.

Il 131esimo Nobel per la pace è stato conferito all’attivista iraniana Narges Mohammadi «per la sua lotta contro l’oppressione delle donne in Iran e la sua battaglia per promuovere i diritti umani e la libertà per tutti». Mohammadi è stata arrestata dodici volte, la prima nel 1998. Il premio è stato ritirato dai suoi due figli che vivono in esilio in Francia perché l’attivista è attualmente detenuta nel carcere di Evin.

Il premio Sacharov, invece, è stato assegnato a Mahsa Jîna Amini e al movimento Donna, vita, libertà. Alla cerimonia però non hanno potuto partecipare i membri della famiglia Amini perché l’8 dicembre sono stati fermati all’aeroporto di Teheran dalle autorità iraniane e i loro passaporti sono stati confiscati.

Con il passare dei mesi la cronaca relativa a ciò che succede in Iran è passata sempre più in secondo piano, nonostante nel paese le proteste e le violazioni dei diritti umani non siano finite.

«Purtroppo, l’Iran sta vivendo quello che succede sempre quando ci sono delle guerre – dice Tabrizi – tutto rientra all’interno di una fase quotidiana, ci si abitua e se ne parla sempre meno. Era successo già con l’Afghanistan. Ormai sembra normale che una donna afghana rimanga chiusa in casa. Noi cerchiamo in tutti i modi di tenere l’attenzione elevata, non vogliamo essere ignorati e dimenticati».

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