Una condanna che cade come un macigno: 3 anni di carcere per diffusione di notizie false.

Patrick Zaki una sentenza così non se la aspettava. È arrivata ieri, dopo undici udienze, all’improvviso, al Tribunale per i reati minori di Mansoura. All’inizio della seduta, i suoi legali avevano chiesto che si fissasse una data per il pronunciamento della sentenza.

Ma il verdetto, invece, è arrivato dopo diverse ore. E Patrick, anziché tornare nella sua casa al Cairo, come aveva fatto dal giorno della sua liberazione nel dicembre del 2021, è tornato in manette.

È stato portato via dall’aula attraverso il passaggio della gabbia degli imputati e poi, nel pomeriggio, alla direzione della sicurezza di Mansoura in attesa del trasferimento in carcere. Le urla della madre e della fidanzata, che lo aspettavano fuori, a raccontare il dolore e il disorientamento dei suoi familiari.

In questi 19 mesi di libertà Patrick aveva portato a termine la sua laurea al master Gemma dell’università di Bologna, lo aveva fatto il 5 luglio scorso in videoconferenza perché le autorità egiziane non gli avevano dato il permesso di lasciare il paese, e stava organizzando il suo matrimonio previsto per settembre.

«È un incubo per tutti noi», dice la sorella Marise che dal giorno del suo arresto, il 7 febbraio del 2020, ha sempre combattuto per la liberazione del fratello. Come tutta la sua famiglia, pensava che il peggio fosse passato. E invece no.

Tre anni di carcere la condanna, ne rischiava sino a cinque. Un articolo scritto nel 2019 sulla condizione della minoranza copta in Egitto il mezzo con cui avrebbe diffuso notizie false.

Così, tenendo conto dei ventidue mesi già passati in custodia cautelare, dovrà stare dietro alle sbarre sino a settembre del 2024. L’unica certezza di questa vicenda restano i suoi avvocati che, anche questa volta, non hanno intenzione di mollare.

I ricorsi per scarcerare Patrick

«Faremo ricorso», ha detto all’Ansa il capo del suo team legale Hoda Nasrallah all’uscita del tribunale. «Chiederemo al governatore militare di annullare la sentenza o di far rifare il processo» .

La ripetizione del procedimento giudiziario è l’unica strada disponibile; quello conclusosi oggi è inappellabile perché è stato celebrato con il rito di emergenza. Il rinvio a giudizio di Zaki, infatti, era avvenuto nel settembre del 2021 e, con il paese ancora sotto lo stato di emergenza, diversi detenuti politici erano stati mandati a processo con questa procedura speciale che prevede solo un grado di giudizio.

Poche ore dopo la sentenza, Hossam Bahgat, direttore di Eipr – il think tank dove Zaki collaborava e da cui proviene il team della sua difesa legale – ha annunciato che gli avvocati non faranno solo ricorso per annullare e ripetere il processo ma anche per tentare la scarcerazione immediata di Patrick.

«Secondo una circolare del 2017 che regola i processi di emergenza, Patrick dovrebbe tornare in libertà sino a quando la condanna non verrà ratificata dal presidente della Repubblica», spiega. «Ma al momento non abbiamo ricevuto nessuna risposta e stiamo continuando a fare pressione con le autorità giudiziarie».

Bahgat dice anche che non c’è nessun termine limite per la ratifica della sentenza da parte della Presidenza egiziana e che i legali faranno di tutto per evitare che la condanna venga convalidata.

Come per tutte le vicende giudiziarie che riguardano i detenuti di coscienza, nel paese sono almeno 60.000 e Zaki è solo il caso più noto in Italia, le decisioni e le procedure avvengono in maniera totalmente arbitraria.

«Trascinano queste vicende per anni, lo fanno sempre», dice Amr Abdelwahab, uno degli amici più stretti di Patrick e pilastro della campagna per la sua liberazione. «Ma alla fine le dittature operano in questo modo. Restano imprevedibili perché solo così possono continuare a farti paura».

Il ruolo dell’Italia

La casualità e i colpi di scena hanno accompagnato il caso Zaki sin dall’inizio. Da quando, il 7 febbraio del 2020, Patrick è scomparso all’aeroporto del Cairo, mentre tornava da Bologna, per poi riapparire il giorno dopo in una stazione di polizia di Mansoura. Prima i capi di accusa erano 10 post su Facebook, poi dopo il rinvio a giudizio, 19 mesi più tardi, l’articolo su al Darraj.

Nei suoi mesi di detenzione, la campagna per la liberazione di Zaki in Italia è stata definita una delle più potenti degli ultimi decenni.

Nel 2021 sia la Camera dei deputati, sia il Senato avevano accolto le istanze della società civile approvando le mozioni per conferire la cittadinanza italiana per meriti speciali per il giovane ricercatore. Ma da allora, la procedura – che deve passare dal governo – non è mai partita.

«Il nostro impegno per una soluzione positiva del caso di Patrick Zaki non è mai cessato, continua, abbiamo ancora fiducia», ha dichiarato ieri la premier italiana Giorgia Meloni.

Sul fronte egiziano, il segretario del Comitato per i diritti umani della Camera dei deputati, e componente del Comitato per la grazia presidenziale, Mohamad Abdelaziz ha aperto uno spiraglio di speranza.

Abdelaziz ha spiegato su Facebook che il suo organismo «ha ricevuto rassicurazioni sul ricercatore Patrick George Zaki e altri». Un messaggio che potrebbe preannunciare l’intenzione da parte della presidenza egiziana di graziare il giovane ricercatore come già fatto,  in occasione di festività musulmane e ricorrenze nazionali, per altri detenuti politici.

Ma dopo tre anni dall’inizio della vicenda, e tre governi italiani dopo, c’è scetticismo sul reale successo di una pressione diplomatica e sulle mosse dei palazzi del Cairo con i prigionieri di coscienza. 

«Il regime egiziano opera con due registri diversi; da un lato finge di dare concessioni, dall’altra opprime e continua a condannare le persone senza alcuna discriminazione», dice Mohammed Hazm, amico di Patrick. «Lo fa a livello interno e con le relazioni all’estero. È un semplice maquillage da cui è bene diffidare».

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