Quando, lo scorso 29 dicembre, il Sudafrica ha formalizzato una denuncia alla Corte internazionale di giustizia (Cig) contro Israele ai sensi della Convenzione Onu per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, in pochi credevano che fosse qualcosa in più di un’azione dimostrativa di propaganda e che avesse un fine realmente giuridico.

In realtà la mossa di Pretoria si è rivelata deflagrante sotto vari aspetti. Intanto sul piano politico la denuncia è stata in grado di conglobare attorno a sé una fetta significativa di mondo e compattare tanto di quel Sud globale che sta assumendo una sua fisionomia sempre più marcata sulla scena internazionale.

Ma anche sul piano squisitamente giuridico sta producendo effetti molto concreti. La Corte dell’Aia innanzitutto, come è noto, dopo le prime udienze che si sono tenute a gennaio, ha emesso un'ordinanza intimando a Israele di non violare gli obblighi previsti dalla Convenzione sul genocidio, accogliendo di fatto le richieste del Sudafrica e avvalorando l’ipotesi di un possibile graduale scivolamento verso azioni genocidarie.

La Corte ha poi fatto riferimento, nell’ordinanza del 28 marzo scorso, al timore che il deterioramento esponenziale delle condizioni umanitarie a Gaza costituisca un cambiamento della situazione e giustifichi misure aggiuntive.

Ma da qualche giorno, sulla scia del procedimento innescato dal Sudafrica, l’Aia sembra stia seriamente valutando un’incriminazione del Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu assieme al capo di stato maggiore Herzi Halevi e al ministro della Difesa Yoav Gallant. Che la cosa sia più di un’ipotesi e che a Tel Aviv non la si stia sottovalutando lo si può intendere anche dalle rivelazioni riportate dal sito israeliano Ynet, secondo cui il primo tema all'ordine del giorno del gabinetto di governo convocato lo scorso 30 aprile, era proprio il timore di mandati di arresto da parte della Corte penale internazionale dell'Aia.

In attesa di capire se si arrivi o meno all’incriminazione che paragonerebbe Netanyahu a Putin o ad altri criminali di guerra e, soprattutto, se l’eventualità innescherebbe un cambio di rotta nella gestione della guerra da parte de governo di Tel Aviv, si può sottolineare quanto stia salendo di decibel la voce dei paesi africani e più in generale del cosiddetto Sud globale nella scena geopolitica mondiale.

Al di là di come la si pensi sulla mossa di Pretoria di portare a giudizio Israele, è assolutamente innegabile il peso politico che abbia avuto. Anche perché dietro o accanto al Sudafrica, che peraltro si avvia verso un delicato voto il 29 maggio prossimo, c’è una serie molto nutrita di paesi che si allinea nel condannare Israele e nel formare un nuovo blocco, anticolonialista e staccato definitivamente dall’occidente, a cui non riconosce la palma del detentore di diritti umani ma anzi è consapevole di doverglieli insegnare.

Il concetto di occidente quale autorità morale de facto e garante dei diritti del mondo che lo ha portato, dal dopoguerra ad oggi, a prendersi il ruolo di difensore e esportatore di democrazia, ha all’attivo un bilancio innegabilmente disastroso. Basterebbe citare il caso dell’Afghanistan per comprenderne il fallimento.

Ma prima di Afghanista, Iraq, Vietnam o America Latina, a pesare sulla bilancia della storia c’è il colonialismo, un’invenzione tutta europea terminata appena qualche decennio fa. La nuova consapevolezza che sale dall’Africa e dal meridione del mondo, con infinite contraddizioni, sembra dire: non prendiamo più lezioni, almeno non da voi.

Il fronte unito

Trentuno stati del mondo – quasi tutti del sud globale – oltre a Unione Africana, Lega Araba, Organizzazione della cooperazione islamica e Movimento dei non allineati si sono schierati a fianco del Sudafrica nella causa contro Israele (solo dodici son quelli contrari: Australia, Austria, Repubblica Ceca, Francia, Germania, Guatemala, Ungheria, Israele, Italia, Paraguay, Stati Uniti e Regno Unito).

Qualche giorno fa il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan ha dichiarato che il suo paese si unirà alla causa per genocidio intentata dal Sudafrica: «Una volta completato il testo legale del nostro lavoro – ha spiegato –  presenteremo la dichiarazione di intervento ufficiale presso la Corte internazionale di giustizia con l'obiettivo di attuare questa decisione politica».

La causa di un paese africano liberatosi così di recente di uno dei regimi più oppressivi e razzistici della storia dell’umanità contro uno tra quelli considerati più rappresentativi delle “democrazie” occidentali, al di là dei risultati che porterà, ha un valore simbolico eccezionale. C'è una storia, una memoria ancora fresca, ci sono rapporti di forza e squilibri creati dal colonialismo che ancora persistono, che fanno della Palestina, come ha scritto Nesrine Malik sul Guardian, «una causa totemica, che si allinea con il risentimento verso gli interessi egemonici occidentali che servono pochi e si aspettano che il resto si allinei».

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