L’ennesimo colpo di stato militare in Africa occidentale ci dimostra che il male africano è più profondo e non è la Russia. Mosca (o jihadisti vari) si inserisce nel vuoto politico lasciato da altri. È un pericolo ma non la causa di ciò che avviene.

Non ci si deve fare impressionare dalle manifestazioni con le bandiere russe nelle strade di Niamey: è facile in quei paesi trovare un po’ di giovani pronti a protestare. Ancor più semplice indirizzarli nell’attacco al consolato francese.

Non si tratta nemmeno di mancanza di lavoro per i giovani, corruzione delle élite o violenza (delle istituzioni o dei miliziani come in Sudan). Tutte queste ragioni possono spiegare l’intensità del terremoto politico in atto e il suo prolungarsi nel tempo, ma non la sua origine che è sostanzialmente endogena: la fine dei sogni dell’indipendenza.

Stati deboli

L’Africa ha stati deboli e senza consenso che nessuno si prende la briga di difendere. Quando poi si tratta di democrazie come in Niger, lo stato appare ancor più fragile e una qualunque oscillazione militare può farlo cadere.

Ciò che è accaduto a Niamey è significativo: la guardia presidenziale (il corpo meglio armato del paese) tenta un golpe; l’esercito all’inizio si oppone ma poi si accorda in cambio di pezzi di potere.

Un «colpo opportunista, fatto per saccheggiare il paese» ha detto il presidente, Mohamed Bazoum, ostaggio dei putschisti. Il giorno stesso la popolazione tenta una manifestazione di sostegno alla democrazia che viene subito dispersa a colpi di arma da fuoco.

Il giorno dopo il nuovo uomo forte appare in tv: è il capo della guardia presidenziale nominato dal predecessore di Bazoum, Mamadou Issoufou, anche lui eletto democraticamente. Girano voci di un coinvolgimento di quest’ultimo nel colpo ma non ci sono prove. Anzi: Issoufou tenta una mediazione che non riesce.

Gli ambasciatori occidentali si recano a casa sua per chiedergli di denunciare la giunta ma lui prende tempo: cerca di salvare ciò che resta delle istituzioni e non vuole aumentare il caos. La reazione francese e occidentale (Usa inclusi) è durissima: sanzioni e cintura sanitaria attorno al Niger.

Era il paese più vicino all’occidente e l’allarme è forte. Gli africani della regione occidentale concordano e danno una settimana di tempo ai militari per tornare nelle caserme.

A questo punto una manifestazione viene organizzata a Niamey con gran profluvio di bandiere russe. Si tratta di un messaggio della giunta: se non ci lasciate stare andremo verso Mosca.

Mosca come alibi

Ormai la Russia in Africa è diventata un alibi o una sorta di spaventapasseri: serve a chi vuole aggrapparsi al potere. Gli africani sanno che gli occidentali vedono i russi dietro a tutto e sfruttano tale fissazione.

In verità ciò che accade è molto più complesso: lo stato africano ha subìto una forte alterazione dall’inizio del nuovo millennio. Da clientelare è divenuto uno stato privatizzato in cui nessuno crede più.

In sintesi si può dire che all’inizio delle indipendenze (anni 60 e 70) lo stato africano si è formato sul modello europeo: welfare nascente (soprattutto in educazione e sanità); commercio protetto (in prevalenza con le ex metropoli coloniali); preminenza dell’impiego pubblico.

Nelle ex colonie inglesi c’è stata un po’ più di sensibilità per il settore privato senza discostarsi da tale sistema. Tutto è cambiato con gli anni ‘80 e l’inizio dell’iperliberalizzazione: lo stato africano è stato investito da un’ondata di diktat del Fondo monetario che lo ha indebolito dall’interno.

I piani di aggiustamento strutturali lo hanno obbligato ad abbandonare il welfare costruito e a privatizzare tutto il privatizzabile. Negli anni ‘90 le multinazionali occidentali si sono appropriate di tutto ciò che aveva un valore: porti, miniere, colture intensive ecc. Si è trattato del medesimo processo avviato nella Russia post sovietica, che ha reso oggi comprensibile agli africani la propaganda russa “anti coloniale”.

Così lo stato africano non è riuscito più a redistribuire nemmeno in maniera clientelare, e si è immiserito del tutto. È stato in quest’epoca che sono iniziati i primi processi di disgregazione istituzionale (Liberia e Sierra Leone, Congo/Zaire, Corno d’Africa ecc.), prodromici di ciò che avverrà più tardi su scala più vasta.

La resistenza democratica

Ma la resistenza democratica è ancora possibile, come dimostrano la pace in Mozambico, mediata dalla Comunità di Sant’Egidio tra il 1990 e il 1992 e, due anni dopo, la fine dell’apartheid sudafricana.

Con il 2000 sono arrivati i cinesi: hanno regalato e prestato a loro vantaggio, dimostrando che l’Africa non è il “bottom billion” (l’ultimo miliardo) senza valore ma un continente dove si possono fare buoni affari.

La reazione occidentale è stata un dietrofront immeditato: si è tornati a investire per far concorrenza alla nuova potenza che voleva diventare la “fabbrica del mondo” e aveva bisogno di tutto (energia e materie prime).

C’è stato posto anche per nuovi soggetti: sono arrivati turchi, indiani, brasiliani, arabi del Golfo e così via. È stato il momento magico dell’Africa rising in cui tutto sembrava possibile. Ma la generale, quanto interessata, nuova passione per l’Africa non si rivolgeva alla cura dei mali sociali: poco o nulla è stato fatto per il settore pubblico e non sono state ricostruite sanità e educazione, ormai in rovina.

Cultura privatistica

Anche la cooperazione allo sviluppo dei paesi ricchi si è adeguata alla nuova mentalità competitiva: da una parte ha evitato i governi africani considerandoli irrimediabilmente corrotti; dall’altra ha iniziato a considerare normale far pagare i servizi socio-sanitari.

La cultura privatistica è entrata anche nell’aiuto pubblico allo sviluppo. Nelle città africane si è scatenato il modello competitivo: se le scuole e università pubbliche deperivano a vista d’occhio, quelle private spuntavano come funghi; se gli ospedali pubblici erano annientati, sorgevano ovunque cliniche e farmacie private.

Il settore pubblico continuava a sprofondare mentre quello privato si installava dovunque, rivolgendosi al nuovo ceto medio frutto della privatizzazione dell’economia. Il nuovo mantra era: tutto si paga e nulla è gratuito e per tutti.

I danni della globalizzazione

È vero che girano più soldi e che ci sono numerosi nuovi ricchi ma non si tiene conto che, senza una risposta sociale erga omnes, qualcosa si sta spezzando nel tessuto sociale.

La globalizzazione in Africa ha creato molta più ricchezza ma non è riusciti a redistribuirla e ora le disuguaglianze sono più evidenti, aumentando rancore sociale o tentativi illegali di arricchirsi.

Prosperano le reti criminali e il contrabbando. Qui nasce la spinta alle migrazioni: un vero settore economico in cui il giovane candidato a migrare scommette su sé stesso. Emigrare diviene un investimento a lungo termine, con tanto di calcolo del rischio. La pulsione a competere e arricchirsi spinge la popolazione africana a cercare soluzioni competitive e/o violente.

Il mercato iperliberista è un ambito violento, in cui ci si batte senza esclusione di colpi. Così si giunge alla fine di un processo in cui la fiducia nelle istituzioni è crollata, anche in quelle democratiche. Non c’è più fiducia nel destino collettivo: resta solo la débrouillardise individuale (sbrigarsela da sé).

In tale contesto trova spazio anche una forma di antipolitica all’africana, come vediamo nel populismo usato dai militari. In circa vent’anni lo stato africano ha perso ogni autorevolezza: da predatore è diventato esso stesso preda dei più spregiudicati.

Finiti i sogni collettivi delle indipendenze (panafricanismo, socialismo africano, unità africana ecc.), muoiono anche quelli della democrazia africana degli anni Novanta (le conferenze nazionali). Lo stato è divenuto un affare privato in mano a pochi.

I giovani africani hanno perso speranza nel futuro dei propri paesi e diventano manodopera per avventure violente. Per comprendere il perché della spirale dei colpi di stato in Africa saheliana occorre partire da questo. La parte saheliana, più fragile e povera, cade per prima. Ora l’Europa deve trovare con generosità il modo di difendere quella costiera, più ricca e popolosa. 

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