In fisica esiste una correlazione precisa tra il disordine di un sistema chiuso e la sua temperatura: più energia viene prodotta, più le molecole si agitano e la pressione aumenta fino a raggiungere livelli critici.

È facile intuire da questa immagine la condizione di un pianeta letteralmente in ebollizione per il riscaldamento globale, ma anche per il calore generato da attriti tra piccoli e grandi interessi, ormai fuori da qualsiasi ordinamento. Un tempo la Guerra era fredda non solo perché riusciva a tenere spenti i motori dei missili, ma anche perché era in grado di “raffreddare” i disordini emergenti, congelandoli in un’architettura di precise relazioni persino tra nemici giurati.

Le nuove sfide globali, dalla rivoluzione tecnologica alla transizione energetica, si aggiungono ai conflitti politici e identitari in tutto il pianeta, proprio quando servirebbe la massima cooperazione possibile per ristabilire un qualche tipo di ordine.

L’effetto è cumulativo: più temporeggiamo, più la pressione ci avvicina al punto di rottura. Tornare a “raffreddare il sistema” attraverso ideologie chiare o vecchi rapporti di forza pare oggi impossibile. Ma anche attendere che il contesto raggiunga un nuovo equilibrio in modo autonomo è azzardato: l’eventualità che esploda prima è più che un'ipotesi remota.

In questo scenario caotico coesistono realtà diverse che reagiscono alle sollecitazioni in modi altrettanto diversi. I grandi imperi globali operano secondo ambizioni egemoniche e logiche di interesse diretto, dimostrando sempre più di non potere (o volere) farsi carico delle urgenti questioni di interesse globale. Nuove medie potenze sono alla ricerca di spazi di emancipazione e opportunità di affermazione, mentre i piccoli attori nazionali non sono più in grado di rispondere a sfide oltre la propria portata.

Le intese

Le alleanze regionali — sempre più riconosciute come l’unica forma di governance capace di ottenere risultati, interloquendo alla pari con le grandi potenze — tardano tuttavia ad affermarsi. I progetti di integrazione più avanzati, l’Unione europea in testa, soffrono delle rigide regole interne che ne rallentano le capacità decisionali. Le cooperazioni oggi emergenti, seppur dinamiche e in rapida evoluzione, sono ancora troppo deboli e frammentarie per agire come un unico blocco.

Negli ultimi anni si è sentito allora il bisogno di congegnare uno strumento diverso, una nuova forma di cooperazione internazionale capace di proiettarsi verso un regionalismo solido, ma sufficientemente agile per operare sulle criticità immediate: il “minilateralismo”.

Si tratta di associazioni più “semplici" e ristrette, talvolta informali, definite sulla base di obiettivi e collaborazioni su temi specifici. Il mondo se ne sta riempiendo: dalla cooperazione tra Indonesia, Malesia e Filippine per la lotta contro la pirateria e il terrorismo internazionale, al Consiglio di Cooperazione degli stati del Golfo Persico in ambito commerciale, scientifico e militare.

Nessuno dei partecipanti è allineato del tutto con gli altri, ma intanto il comune interesse è stato messo al riparo da conflitti, instabilità e interventi stranieri. L’auspicio inderogabile, tuttavia, è che un giorno queste alleanze, oggi basate esclusivamente sugli interessi, si trasformino in percorsi di integrazione più consolidati, in cui anche valori e visioni vengano condivisi. Gli Accordi di Abramo hanno evidenziato, in modo drammatico, come non basti aprire commerci e rotte aeree per evitare le guerre.

Una strada da percorrere

Ma il minilateralismo può essere funzionale non solo là dove il regionalismo è ancora nella fase nascente. Si pensi ad esempio come nello stesso contesto europeo esso potrebbe offrire architetture di cooperazione non alternative, bensì ausiliarie all’Unione stessa: accordi su questioni ben designate e ristretti a pochi contraenti, ma per loro natura più pronti e responsivi. Così, se la cooperazione integrata e unanime — dalla difesa comune alle politiche migratorie — pare oggi un traguardo ancora lontano, nuovi schemi “minilaterali” potrebbero dare risposte più rapide ed efficaci.

Sarebbe un buon esercizio per affacciarci più pragmaticamente al multilateralismo di domani: capace di dialogare con le grandi potenze e utile a quegli attori che non vogliono trovarsi alla mercé delle rivalità globali: “oggetti” sul tavolo dei negoziati anziché “soggetti” attorno ad esso.

Costruire questo nuovo equilibrio non è immediato: serve un cambio di mentalità ancora prima di decisioni politiche. Cercare di crescere da soli, a discapito degli altri, è un buon modo per aumentare il disordine, ma trovare nuovi modi per lavorare assieme non può che aiutare a raffreddare, almeno un po’, questo nostro mondo.

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