Al porto di Tripoli, 85 km a nord di Beirut le persone passeggiano tranquille sul lungomare. Le notizie di guerra che arrivano dal sud spaventano i cittadini della zona, anche se tutti sanno che difficilmente Israele bombarderà qui. In queste ore, però, c’è qualcos’altro che si agita tra le rimesse delle barche e i chioschetti che vendono caffè e sigarette, giusto al ridosso della strada. I trafficanti, che nei mesi scorsi sono stati quasi fermi, è già da qualche giorno che hanno ripreso in pieno le loro attività.

Il business della fuga

«Le richieste di partenze sono arrivate quasi tutte insieme cinque giorni fa», racconta Marwan, un giovane tripolitano che da un paio d’anni fa il mediatore tra chi vuol partire e i trafficanti. «Il mio numero lo conoscono tutti ormai – dice fiero – e mi hanno chiesto di organizzare fughe, via mare o via terra». Sono servite poche telefonate per riattivare un business che negli scorsi anni ha organizzato lunghissimi viaggi dal Libano all’Italia, quasi 12 giorni di navigazione.

Ora le cose sono un po’ diverse, dicono: la guardia costiera si fa corrompere meno che in passato e quindi partire via mare è molto più difficile. «Ma non impossibile, tenteremo. Sono già fissate le date per le prossime partenze», dice Marwan. Gli attacchi israeliani di questi giorni nel sud del Paese hanno spinto moltissime persone a decidere di lasciare il Libano e non è insolito che succeda. «Fino a pochi mesi fa la maggior parte di coloro che scappavano illegalmente era libanese», spiega Janawa, una collaboratrice del Cldh, il centro libanese per i diritti umani. «Generalmente, oltre ai palestinesi e ai siriani, i libanesi erano una percentuale notevole.

Questo perché le condizioni di vita nel Paese sono diventate insostenibili. Ora, con questa nuova guerra, che si spera non diventi come quella del 2006, in tanti stanno pensando che…basta. Dunque - dice ancora l’attivista del Cldh - mi aspetto che ci sia una grossa richiesta di viaggi illegali da parte dei libanesi, anche se noi spieghiamo quali sono i rischi e proviamo a fermali».

Effettivamente, le fonti confermano che la richiesta di partenze è arrivata quasi esclusivamente da libanesi, disposti a pagare fino a 3mila dollari a persona, le ultime ricchezze rimaste, pur di scappare via. «I trafficanti hanno organizzato delle partenze con le barche – dice ancora Marwan - ma ci sono piste (rotte, ndr) anche dalla Siria». Il confine siriano è a pochi km dal centro di Tripoli e basta un’ora e mezza per arrivare a Tartous, il secondo porto più importanza della Siria. E infatti, è proprio dalle coste di quel governatorato che sarebbero in partenza i prossimi barconi carichi di migranti, stavolta soprattutto libanesi.

La rete dei trafficanti è sempre stata molto attiva tra Libano, Siria e Turchia, ma da quando è cominciata la guerra a Gaza e dopo gli attacchi sul sud del Libano, sono state riattivate delle rotte che di recente erano rimaste congelate. «I trafficanti locali hanno già preso contatti con colleghi siriani e turchi», spiega Marwan. «Chi non potrà andare via mare, tenterà dalla Siria e chi, invece, potrà permetterselo, arriverà in Turchia e da lì in Grecia. O sulla rotta balcanica».

I prezzi, ovviamente, cambiano. Tremila dollari per partire dal Libano, 5mila dalla Siria, per arrivare in Turchia si arriva quasi a 8mila dollari. Il business è fiorente più che mai, soprattutto con guerre che si agitano nelle vicinanze.

L’esodo verso nord

Mentre a Tripoli la rete dei trafficanti intesse nuovi traffici, al sud c’è il panico. «Stiamo cercando di scappare verso nord, non ci interessa restare nei campi profughi allestiti intorno a Beirut». In auto sono in sei, stipati con sacchi e valigie e provano a raccontare la loro fuga, anche se la linea va e viene. Ghassan e la sua famiglia abitavano sulla linea del fronte, non lontano da Tiro ma le bombe delle ultime ore hanno devastato il loro villaggio, Kafr Sir.

Le strade sono un caos di traffico e polvere, raccontano, e ci si mette ore a fare pochi km ma non ci può fermare. Ghassam e il figlio hanno stipato una tanica di benzina nel baule. «Speriamo ci basti, perché ora fare rifornimento costa troppo e molti benzinai hanno quasi finito le scorte», ci dicono in telefonate intervallate da urla e clacson. Sono diretti nella capitale, da alcuni amici. Altre famiglie, invece, sono già arrivate al campo profughi di Shatila, alla periferia di Beirut.

Qualche giorno fa è stato l’anniversario del massacro compiuto dalle forze libanesi e dall’esercito israeliano tra il 16 e il 18 settembre 1982 ma Shatila ha dimenticato. «La situazione nel campo è molto difficile», racconta Adam Majdi, palestinese nato e cresciuto dentro Shatila. «Non c’è elettricità, non c’è acqua potabile, dobbiamo comprarla al mercato nero per poterci dissetare, perché quel poco che esce dai rubinetti è quasi sempre salata. Eppure, abbiamo accolto alcune famiglie scappate dai bombardamenti del sud. Alcuni – spiega Adam – avevano già dei parenti qui, altri si sono trasferiti perché pensano che qui siano più al sicuro».

Anche dentro Shatila ci sono dei mediatori che negli scorsi anni hanno organizzato molti viaggi via mare, per scappare dall’inferno del campo. E anche oggi quei mediatori sono già al lavoro. «Sì, onestamente molti stanno pensando di andare via illegalmente, perché è l’unico modo che abbiamo per poterci mettere in salvo, non ce ne sono altri. I corridoi umanitari sono stati pochi ed esclusivamente per i siriani». Le notizie di bombardamenti e morti continuano ad arrivare e anche per oggi l’Idf ha annunciato nuovi raid.

«La possibile operazione di terra di Israele ha terrorizzato i cittadini di tutta l’area a sud», spiega Hani, giornalista locale. «Molti temono che la zona tra Tiro e Sidone, a ridosso della linea blu, diventi una nuova Gaza e tutti stanno andando via. Chi non è già partito – dice ancora il giornalista – lascerà la propria casa a breve».

Ci si coordina con l’Oim e le Ong presenti sul territorio. «Stiamo assistendo a una nuova ondata di sfollamento di cui si sta valutando la dimensione, la direzione e i bisogni più urgenti», dicono i membri dello staff di Intersos. «Siamo fornendo assistenza alle persone in fuga nei rifugi collettivi a Beirut e Mount Lebanon, che il governo sta predisponendo. Inoltre, stiamo iniziando la valutazione dei bisogni all’interno di 3 centri per gli sfollati, due a Mount Lebanon e uno a Tiro».

I numeri delle persone in fuga verso i centri di accoglienza sono ancora imprecisi, servirà ancora qualche giorno per capire. «In verità – aggiunge il giornalista Hani - molti non vogliono diventare bersagli nei campi profughi. Andranno al nord. O finiranno nelle mani dei trafficanti».

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