Sarà di certo capitato a molti di imbattersi in un commento traboccante di scetticismo di fronte alle sempre più numerose manifestazioni per la pace o agli appelli per il cessato il fuoco: “serviranno davvero a qualcosa?» 

Se è innegabile che nessuna guerra si è mai arrestata grazie alla sola pressione delle piazze, la costruzione di un processo di pace trova, d’altro canto, la sua maturazione proprio nella spinta del pacifismo. Ma, per raggiungere questo scopo, è essenziale ricordare come esse siano istanze tanto necessarie, quanto da sole per nulla sufficienti.

Un impulso naturale

Reclamare la pace è un istinto naturale, letteralmente. Già Freud spiegava che abbiamo “ragioni organiche” per indignarci contro la guerra. Lo dobbiamo a quel processo di “incivilimento” che ci ha trasformati col tempo da animali territoriali a soggetti capaci di evitare il proprio drammatico annientamento. La guerra ci travolge, stracciando in un momento le lente e faticose conquiste della nostra evoluzione.

Gridare “pace” diventa un impulso tanto radicato che ci meravigliamo di come, di fronte all’escalation di violenza globale, il pacifismo non si trasformi in una vera rivoluzione. Dove sono le fiumane di genti determinate a dare l’assalto ai palazzi del potere, in cui si decidono le sorti di migliaia di vite mentre i “processi di pace” si fanno e disfano con disarmante facilità?

Non solo questo non accade, ma, con stupore, bisogna constatare che c’è chi, pur vivendo in società stravolte dal conflitto, continua a invocare la guerra. E non perché sia manipolato dalla propaganda o schiacciato dal timore di un apparato repressivo, ma perché spinto da pulsioni autentiche e ragioni sincere, per quanto spesso inconcepibili dal di fuori.

In Europa sgraniamo gli occhi di fronte alle dimostrazioni di bellicismi nazionalistici sempre più pervasivi, ma la verità è che anche il nostro pacifismo riesce a far poco di fronte al crescente desiderio di affidare il nostro avvenire nelle mani “capaci” di qualche leadership “illuminata” e risoluta.

Un lavoro politico 

Riuscire a cogliere queste dinamiche diventa allora essenziale, per costruire un pacifismo che non si limiti a manifestazioni in paesi lontani dal fronte, ma che comprenda anzitutto la differenza sostanziale che passa tra lo sventolare una bandiera arcobaleno e operare davvero per la pace: uno scarto che solo l’impegno della politica può colmare.

Costruire la pace è un lavoro a tempo pieno, un progetto a lungo termine, da realizzarsi con il coraggio e la costanza necessari per comunicare e lavorare con il nemico, nonostante tutto.
Pretendere il cessate il fuoco non solo è pienamente legittimo, ma risponde alla nostra pulsione naturale di creature “civilizzate” che non possono sopportare la sofferenza dei propri simili. Si tratta, però, di una misura puramente tecnica che lascia entrambi gli schieramenti con intenti vendicativi e baionette innestate.

Nella migliore delle ipotesi, consiste in un atto proto-politico che, per diventare progetto, deve consolidarsi in un disegno più largo, capace di contemplare il coinvolgimento attivo dell’avversario. Senza il riconoscimento da parte di tutte le fazioni della necessità ineludibile di una soluzione politica, ogni conflitto al massimo si arresta, ma non finisce davvero. Come quello tra le due Coree che non hanno mai stipulato alcuna pace, semplicemente evitano di spararsi.

La pace richiede uno sforzo in più del pacifismo: richiede l’incontro e il dialogo con l’altro. E oggi a mancare sembra proprio la determinazione di questa intenzione, che la politica avrebbe il compito di alimentare.
Nei rari casi in cui decide di farlo, sembra operare in maniera autoreferenziale: l’unica pace possibile è diventata la “nostra” che, se si incontra con quella degli altri, lo fa al massimo in maniera “transattiva”, basata su una fortunata convergenza di interessi, più che su una deliberata concordia di principi e visioni.

La pace richiede un’intesa più ambiziosa e onerosa dell’abbassare le armi: richiede un progetto! Dovremmo esigere questo dai nostri partiti mentre agitiamo bandiere e condividiamo slogan. E se non saremo soddisfatti delle loro risposte, trovare noi stessi il coraggio di trasformare il pacifismo in un impegno politico concreto. A volte funziona.

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