Quali sfide per il nuovo governo in politica estera? Quale posizionamento in un quadro geopolitico segnato dal ritorno della guerra in Europa e dalle molteplici conseguenze? Anzitutto l’Italia ha un problema di alleanze all’interno dell’Unione europea. Quest’ultima sta cambiando pelle: dal motore franco-tedesco di Framania verso una situazione ibrida in cui Polonia, baltici e nordici contano di più grazie al sostegno americano e al loro protagonismo nel conflitto ucraino.

La Germania è costretta a una netta sterzata: sta passando da una relazione privilegiata con la Russia in campo energetico e con la Cina sul terreno tecnologico e manifatturiero, a una affannosa ricerca di nuovi partner commerciali nel quadro di una relazione perplessa con gli Usa. Lucio Caracciolo parla addirittura di «sconfitta tedesca».

In tale rimodellamento dell’Ue, la Francia rimane sola: sono ormai note le irritate reazioni francesi per le scelte tedesche di fare da sé (energia, armi ecc). Dal momento che è legata a doppio filo all’economia produttiva tedesca (è il suo maggior sub-fornitore estero), l’Italia potrebbe pagare le conseguenze di tali virate. Si tratta dunque di ritrovare un centro di gravità nella Ue, consapevoli che fino a oggi la Germania ha di fatto garantito – e le conveniva – il nostro enorme debito pubblico.

D’altro canto l’Italia mantiene una “relazione speciale” con gli Stati Uniti che non le permette di prendere iniziative troppo originali o indipendenti, come si è visto con Mario Draghi a proposito della guerra in Ucraina. Come sempre avviene a ogni cambio di esecutivo a Roma, il nuovo governo viene posto sotto osservazione sia dai suoi maggiori alleati che dai mercati. Non è qualcosa che riguarda specialmente la compagine di Giorgia Meloni: è ciò che accade a un paese “too big to fail”, almeno fino a ora. Ai mercati serve sapere se saremo seri con le finanze e basta: non sono interessati ad altro. Ma ciò è sufficiente per stare molto attenti: si è visto come i mercati stessi si sono sbarazzati di Liz Truss in 44 giorni. È un avvertimento e una lezione anche per il governo italiano e non solo.

Le relazioni con Ue e Usa

Per il governo Meloni il primo punto di forza è la relazione con gli Stati Uniti: sono loro i maggiori garanti dell’Italia a livello geopolitico. Ciò significa che per ora la questione guerra non si tocca: malgrado le intemerate (anche recentissime) di Berlusconi o Salvini, la linea resta quella fissata da Washington con Draghi. L’Italia continuerà a sostenere militarmente Kiev.

Alle elezioni di midterm i repubblicani hanno conquistato uno dei due rami del parlamento, ma i candidati più vicini a Trump sono stati sconfitti. È noto che l’ex presidente degli Stati Uniti è contrario al conflitto con Mosca. Giorgia Meloni lo sa bene ed è in contatto con il team di Trump. Un suo successo avrebbe permesso all’Italia di riflettere su un suo riposizionamento che privilegiasse un approccio politico-diplomatico, senza ovviamente venir meno ai doveri dell’Alleanza atlantica, ma facendo leva sui possibili mutamenti americani.

Una fuoriuscita politica dal conflitto sarebbe certamente nostro interesse nazionale, non per riannodare con la Russia (se del caso, ciò avverrà molto più in là) ma a causa delle conseguenze economiche che il nostro paese sta subendo e dei sommovimenti che ciò comporta in Europa. Si tratterebbe – se tale fosse la volontà politica della premier – di un passo verso la sovranità diplomatica: riprendere spazio di manovra per contare politicamente e non reagire soltanto con la formula “questo ci chiedono i nostri alleati”, com’è stato fatto troppo di frequente negli ultimi anni. Il modello sarebbe quello della prima Repubblica, quando l’Italia, senza cambiare alleanze, cercava sempre vie alternative alle crisi e ai conflitti. È ovvio tuttavia che su tale terreno il governo non può commettere errori e per questo agirà con estrema prudenza.

Nel tentativo di riprendersi una maggiore agibilità politico-diplomatica, l’attuale governo ha diverse carte in mano da giocare: l’urgente necessità della Francia di stringere con Roma dopo la crisi della coppia franco-tedesca; il fatto che la Germania non può fare subito a meno di noi (il legame è reciproco: Berlino garantisce il nostro debito ma è dipendente in termini industriali); un ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ben noto e stimato a Bruxelles. Oltre al debito, la nostra vera debolezza è l’energia. Sul lato opposto la nostra forza sono la manifattura e le esportazioni: come Adolfo Urso sa bene, occorre fare tutto il necessario per accrescerle. Per questo ci serve una presenza internazionale più assertiva e intraprendente, in uno scenario globale disordinato e globalmente sfavorevole come quello attuale.

Il fronte dei Balcani

Oltre le relazioni dentro la Ue e con gli Usa, l’Italia ha vari quadranti da affrontare con urgenza. Innanzi tutto le crisi frontaliere: Balcani e nord Africa-Mediterraneo. Nei Balcani occorre stare attenti all’incipiente crisi bosniaca, con i tentativi della Republika Srpska di unirsi alla Serbia. Ciò metterebbe a repentaglio gli accordi di Dayton e provocherebbe la ripresa della guerra.

L’Italia ha l’autorità e la conoscenza del terreno per mediare e non può lasciarsi sorprendere: un nuovo conflitto causerebbe rifugiati, caos economico e un nuovo fronte aperto all’inserimento della Russia di Putin, prova ne sia il tentativo di penetrazione della marina da guerra russa nell’Adriatico.

Dobbiamo abituarci al fatto che non ci sono più gli americani a coprirci a ogni passo. Un’altra situazione non meno grave è quella kosovara, dove le frizioni di quest’estate con Belgrado sono state pesanti e la soluzione solo rinviata. Anche in questo caso è possibile evitare il peggio ma soprattutto è giunto il momento di chiudere una volta per tutte il contenzioso con un accordo. Fino a oggi la Ue non ci è riuscita: è probabile che l’Italia – magari con il sostegno albanese e di altri – possa fare meglio. Sia in Bosnia che per il Kosovo, la Francia potrebbe essere una giusta e utile alleata politica. Su entrambi i fronti, con prevalenza per il Kosovo, resta da vedere se e come ingaggiare la Turchia che, approfittando del vuoto europeo, è penetrata in entrambi gli scenari.

La questione africana

In nord Africa la questione è più incandescente: la Libia è nel caos e il conflitto non accenna a fermarsi. Italia e Francia hanno litigato per anni in maniera dissennata, lasciando spazio a Russia e soprattutto alla Turchia, tornata a contare in quel paese un secolo dopo la sua cacciata. Un tema da affrontare con urgenza tra Roma e Parigi è dunque cosa fare a Tripoli, consapevoli che molte occasioni sono ormai tramontate. Limitarsi a polemizzare su navi, scafisti o rilocation è riduttivo.

Sull’Egitto siamo soli: periclitanti interessi economico-commerciali delle nostre imprese a fronte di un vuoto politico-istituzionale a causa della tragica vicenda Regeni. Della nostra assenza si sono avvantaggiati altri europei e occidentali, senza nessuno scrupolo per la violazione dei diritti umani.

Cosa deve o può fare il nuovo governo? La decisione deve essere presa sulla base dell’interesse nazionale, calcolando il peso di entrambi i piatti della bilancia: interessi economici versus posizionamento sui diritti. Dai due lati vi sono vantaggi e svantaggi e questo potrebbe contraddistinguere la condotta internazionale del nuovo governo anche in altri quadranti.

Sappiamo ormai quanto un posizionamento sui princìpi e i valori, in genere considerato poco pragmatico, possa invece determinare benefici in un mondo che si divide nuovamente tra democrazie e autoritarismi. Infine non va dimenticato che l’Egitto è uno dei paesi in cui si studia di più la lingua italiana: un settore – quello della lingua e cultura italiana nel mondo – che andrebbe globalmente sviluppato.

Significativa (e complessa) la relazione con la Turchia dove abbiamo molti interessi, a fronte del fatto che Ankara si comporta da media potenza globale, allungando la propria influenza fino al Sahara e al Caucaso, oltre che al Corno d’Africa. È necessario avere una politica nazionale a tal riguardo: in questi ultimi anni abbiamo ondeggiato, spesso tirandoci indietro e preferito l’attendismo, fino al noto inciso: «Erdogan dittatore necessario» di Mario Draghi.

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