Ci sono finestre a Belgrado sospese nella storia da venticinque anni. All’incrocio tra Kneza Miloša e Nemanjina, due edifici sventrati dalle bombe raccontano ogni giorno a chi passa da qui – in pieno centro – i raid arei della Nato in Serbia del 1999. Vetri sfondati, controsoffitti interamente crollati, pilastri spezzati e macerie a vista da cui distinguere ancora oggi gli arredi dell’ex quartier generale dell’esercito jugoslavo.

Alcune di queste finestre raccontano un’altra storia. Una parte di uno degli edifici devastati dai bombardamenti di Allied Force è in funzione, è oggi sede del ministero della Difesa serbo. E qui proprio la Nato ha un suo ufficio.

«Il nostro ufficio è qui dentro dal primo giorno», racconta il brigadier generale Giampiero Romano, al comando del Nato Military Liaison Office di Belgrado. L’ufficio è stato aperto il 18 dicembre del 2006, quattro giorni dopo l’ingresso della Serbia nel programma Partnership for Peace della Alleanza atlantica, «per facilitare la cooperazione della Serbia con la Nato».

Chi vuole entrare deve prima passare i controlli all’ingresso delle autorità serbe. «Poca gente sa che la Nato ha un ufficio in città», racconta Misa Djurkovic, direttore dell’Institute of European Studies di Belgrado. «E non sanno che è dentro il ministero della Difesa», precisa.

Un ufficio che non tutti conoscono – con un personale di 15 effettivi – ma un presidio strategico, cruciale nel mantenere gli equilibri dell’area balcanica, nel contenere l’influenza di Mosca, nel monitorare i rapporti con il Kosovo e nel tentare di costruire una reputazione alla Nato dopo i raid del 1999.

Settantotto giorni, più di 20.000 tra bombe e missili, 754 vittime – per le autorità serbe sono più di 2.000 – e un dibattito interno che questi numeri li rievoca ciclicamente. Come scrive Filip Ejdus in un paper, «la memoria dell’intervento Nato del 1999 è incorporata nell’identità dello stato serbo».

L’esigenza di una cooperazione qui è geografica, spiega il comandante Romano guardando la cartina appesa sulla porta del suo ufficio: «La Nato e la Serbia sono non solo partner, ma sono anche vicini di casa, da quando quasi tutti i paesi dei Balcani sono membri Nato», racconta.

Ai confini serbi ci sono tre degli otto Battlegroup con cui la Nato ha potenziato la sua capacità operativa dopo l’invasione russa dell’Ucraina, con soldati in Ungheria, Romania e Bulgaria.

E con le bandiere Nato che sventolano in Montenegro, Macedonia del Nord, Croazia. Nel sud della Serbia – in Kosovo nell’ambito di Kfor – la Nato schiera 4.500 soldati, in uno scenario ancora oggi regolato dalla risoluzione 1244 del 1999. Un territorio che ha dichiarato la sua indipendenza – non riconosciuta dalla Serbia – nel 2008, e dove vivono 50.000 serbi.

Come sostiene da Belgrado İlbey Çoban – che studia la Nato con un dottorato ad Ankara – «i serbi hanno bisogno della Nato per la stabilità della regione». E ne è una prova – sostiene Çoban – che nella dottrina di sicurezza nazionale serba del 2021 si parli di Kfor e Nato come presenze molto significative per proteggere la popolazione locale.

Il legame con Mosca

Sul piano geopolitico, la Serbia non ha mai tagliato i rapporti con la Russia, con cui ha legami culturali e religiosi da secoli e ragioni economiche molto attuali, dipendendo quasi completamente da Mosca per il gas.

Dopo la guerra in Ucraina il presidente serbo Vucic ha assicurato ai partner europei – la Serbia è candidata a entrare nell’Ue dal 2012 – di rispettare l’integrità territoriale di Kiev, ma non ha mai imposto sanzioni a Mosca. Scoppiata la guerra, a Belgrado si manifestava sventolando bandiere russe, e il 59 per cento dei serbi dava la colpa della situazione in Ucraina all’occidente.

In più in Serbia negli ultimi due anni si sono trasferiti circa 200.000 russi in fuga dalla guerra, hanno il vantaggio di poter arrivare qui senza visto. E con un volo diretto da Belgrado a Mosca, operato tutti i giorni della settimana da Air Serbia.

Cieli in cui volano ancora Mig-29 di fabbricazione sovietica, l’aviazione ne possiede una decina, l’esercito serbo conta in tutto 25.000 soldati in servizio. Con la Nato che si occupa di «formazione e addestramento agli ufficiali delle forze armate serbe», racconta Romano, l’obiettivo è modernizzare l’esercito e sviluppare l’interoperabilità tra equipaggiamenti così diversi.

Poi c’è la cooperazione scientifica, e le esercitazioni civili congiunte come “Serbia 2018”. Duemila persone da 40 paesi per una simulazione di un terremoto devastante.

«È un grande piacere vedere la Nato e la Serbia lavorare insieme», disse il segretario generale Stoltenberg tra strette di mano e grandi sorrisi. Scena che si è riproposta il 21 novembre scorso, Stoltenberg ha incontrato a Belgrado il presidente serbo Vucic, si è parlato di Kosovo, dei 1.000 soldati in più schierati di recente, di Ucraina e della possibilità di tornare a riorganizzare esercitazioni militari. Un punto che è servito a Stoltenberg per ribadire che la Serbia «resterà neutrale, fuori dai blocchi militari».

Perché, come racconta Romano dal suo ufficio, quella con la Serbia è una cooperazione “cucita” su misura «rispettando la neutralità militare del paese», dichiarata qui nel 2007. Se sposta le tende, dalle finestre tutte le mattine legge una scritta – che nessuno cancella – fatta con lo spray: “Fuck Nato”.

A pochi metri, un lungo striscione contro la Nato definisce Bill Clinton e Tony Blair criminali di guerra. «La campagna aerea del 1999 resta un tema controverso in Serbia. I ricordi sono ancora dolorosi per molti, specialmente per chi ha perso familiari», racconta, spiegando come «abbiamo un grande rispetto per l’opinione pubblica serba. Le loro percezioni sono un fattore cruciale che teniamo in considerazione nelle nostre attività quotidiane».

Buona parte di chi vive a Belgrado ricorda cosa è successo. In città ci sono targhe, memoriali, c’è ancora la facciata squarciata della sede della tv RTS, colpita il 23 aprile del 1999. Con le plafoniere che penzolano ancora dai soffitti. Anche qui, la struttura accanto è oggi operativa.

«Ci penso ogni giorno», racconta un tecnico che mostra il suo tesserino dal portafogli. Lavora qui da 40 anni, era dentro l’edificio la notte in cui è stato colpito. Dice di ricordare nitidamente i suoni e le esplosioni di quella notte, che fecero 16 vittime civili. «Questo è un monumento alla Nato», commenta prima di andar via.

Un adagio del 1221

E, se nelle librerie si trovano racconti a fumetti per bambini della campagna del 1999, al museo militare in vetrina ci sono i resti di uno Stealth F-117A abbattuto. E poi ci sono le commemorazioni.

«Il trauma dei bombardamenti Nato non è svanito nel tempo. Al contrario, cresce col fatto che l’inizio dell’operazione militare viene commemorata ogni anno», spiega Ejdus. E il professor Djukovic dal suo ufficio di Belgrado commenta come «tutti qui hanno qualcuno in famiglia che è stato coinvolto nelle guerre jugoslave, che gli racconta queste storie».

E aggiunge come «in Serbia quasi l’80 per cento della gente è ancora oggi fortemente contro la Nato». Ad alimentare queste percentuali, anche il tono del presidente Vucic che cambia a seconda della platea o dell’interlocutore. «Alla gente piace quando lui parla come quello che difende la famiglia, che combatte contro la Nato», racconta Djukovic.

È successo anche il 24 marzo scorso da Sombor, dove Vucic ha ricordato le vittime del 1999. «Se incontra Stoltenberg, parla invece completamente in modo diverso. Cosa pensa veramente, nessuno lo sa».

La neutralità militare consente alla Serbia di stare tra la Nato e la Russia, la posizione geografica gli consente di essere l’est dell’occidente e l’occidente dell’est, come recita un adagio datato 1221.

La Serbia per forza di cose – politicamente e geograficamente – si trova in mezzo, ma si ha l’impressione che sia volutamente rimasta a metà. Come i palazzi mai del tutto buttati giù e ricostruiti, a venticinque anni dalle bombe della Nato.

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