Con il trasformismo che da sempre connota la sua politica, stavolta Recep Tayyip Erdogan il giorno prima strizza l'occhio all'occidente dicendo finalmente sì all'ingresso della Svezia nella Nato e il giorno dopo, ieri, si propone disinvoltamente come difensore della più persa tra le cause del mondo musulmano. Al parlamento turco ha detto testualmente: «I miliziani di Hamas sono liberatori che combattono per la loro terra e non terroristi».

Per lui sono sinceri patrioti gli assassini che ammazzano civili, vecchi, donne e bambini compresi, li prendono in ostaggio, rendendosi protagonisti di una caccia all'ebreo degna di un pogrom, un grumo di Shoah.

Accusa Israele di «crimini contro l'umanità premeditati» a Gaza pur se aggiunge di «non avere problemi con lo stato di Israele ma di non avere mai approvato le atrocità che ha commesso e il suo modo di agire». Infine, dando voce al suo doppio, si schiera per il cessate il fuoco, l'apertura del valico di Rafah con l'Egitto per far passare gli aiuti umanitari e avanza l'ipotesi di una conferenza di pace internazionale.

Incendiario e pompiere nel breve volgere di pochi minuti per perpetuare il copione del leader in eterno equilibrio tra due mondi, espressione fisica della stessa geografia della sua città, Istanbul, che sta parte in Europa e parte in Asia. Istanbul di nuovo faro del Mediterraneo grazie alla sua politica definita neo-ottomana. E lui, il presidente turco, indispensabile sia per l'occidente sia per l'universo islamico.

Finché durerà. I suoi eccessi verbali sono noti. Imperdonabili però perdonati per non sganciarlo dal treno della Nato. Chissà se sarà così anche stavolta che ha oltrepassato la misura. Cominciò la sua carriera, era il 1997, declamando i versi dello scrittore Ziya Gokalp: «Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati».

Indigeribili nella Turchia ancora per poco kemalista e infatti fu condannato a dieci mesi di carcere e all'interdizione perpetua dalle cariche pubbliche. Risalì la china, ottenne la grazia per i travolgenti successi elettorali della formazione che fondò, l'Akp il partito per la giustizia e lo sviluppo, emanazione turca dei Fratelli musulmani egiziani, incubo per i regimi dittatoriali di diversi Paesi arabi e non solo visto che ha filiazioni in: Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Mauritania, Sudan, Iraq, Giordania, Somalia, Yemen. E, in Palestina, Hamas.

Attivismo nostalgico

Diventato primo ministro nel 2003, Erdogan si spese all'inizio come l'alfiere di un turbo-capitalismo in salsa turca che portò, è vero, un certo benessere, cercò inutilmente l'ingresso nell'Unione Europea, salvo in breve distogliere gli occhi da Bruxelles per concentrarsi sul vicino oriente e sull'Africa.

In nome di una nuova dottrina denominata “zero problemi con i vicini”, slogan varato dal suo consigliere principale, il professor Ahmet Davutoglu, poi suo ministro e premier e ora suo oppositore. L'idea era quella di far ritornare il paese ai fasti del passato, quando era il cuore di un impero andato in sfacelo nella Prima guerra mondiale.

Da qui l'attivismo per proporsi come leader universale di tutti i musulmani. Per cercare di diventarlo demolì a poco a poco i pilastri fondanti della moderna Turchia laica di Ataturk con la legge sul velo, prima vietato, la fine di alcune libertà democratiche tra cui quella di stampa, l'arresto di migliaia di dissidenti soprattutto dopo il tentativo di colpo di Stato fallito nei suoi confronti, la persecuzione dei nemici politici. Per approdare a iniziative simboliche ma fortemente evocative come la trasformazione della basilica di Santa Sofia da museo a moschea, o la costruzione su una collina di Istanbul della più grande moschea del pianeta.

Leader della piazza

La difesa della causa palestinese, abbandonata da molti altri paesi arabi, era ed è il biglietto da visita per accreditarsi come leader acclamato nelle piazze. E il referente non poteva essere il Fatah di Arafat, ma ovviamente Hamas per la comune radice nella fratellanza. Enormi i suoi sforzi perché Hamas fosse rimossa dall'elenco delle formazioni terroristiche di Stati Uniti e Unione Europea.

Copiosi i finanziamenti di Ankara alla Striscia di Gaza valutati in 300 milioni di dollari l'anno. Arditi i tentativi di forzare il blocco imposto da Israele alla Striscia e sfociati anche in inidenti con vittime. Proverbiale lo scontro con Shimon Peres al Forum di Davos del 2009 quando apostrofò l'israeliano: «Voi sapete molto bene come uccidere i bambini».

Si riferiva all'operazione “Piombo fuso”, una delle innumerevoli incursioni aeree dello Stato ebraico a Gaza per punire i continui attacchi provenienti dalla Striscia. Al ritorno in patria fu acclamato come il nuovo Saladino e inneggiato nelle piazze arabe come il salvatore dell'islam.

Ora Erdogan approfitta della nuova crisi per riproporsi come paladino dei terroristi e però contemporaneamente mediatore. Fino a quando gli sarà permesso di portare due maschere?
 

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