Che gli occhi e le voci che raccontano l’Africa generino troppo spesso immagini semplificate e rappresentazioni durevoli più di quanto sia necessario, è una vecchia questione.

Non è però comune che una scrittrice affermata metta animo e competenze sul tavolo, confessandosi ai suoi lettori con un «Sì, ho sbagliato tutto». Un mea culpa franco e aperto, senza nascondere un certo imbarazzo, ma deciso a rettificare quanto è andato storto.

Con Do not disturb. The story of a political murder and an African regime gone bad (Non disturbare. Storia di un assassinio politico e di un regime africano andato male), Michela Wrong torna a investigare le trame politiche di un’area dell’Africa in cui queste non sono mai scarseggiate.

La giornalista britannica ha avuto una lunga e intensa frequentazione con la regione dei grandi laghi – quella, per intenderci, che raccoglie attorno a cinque vasti laghi le sterminate aree orientali del Congo-Kinshasa assieme ai più piccoli Uganda, Ruanda, Burundi e alla Tanzania nord-occidentale. E, per rimanere in tema, potremmo dire che ancora una volta la Wrong è riuscita ad agitare le acque.

Il centro del tutto è il piccolo Ruanda. E il Ruanda, bisogna ricordarlo, è parecchio al centro dell’Africa. Non solo o non tanto per posizione geografica, ma per la rilevanza tutto sommato sproporzionata che la capitale Kigali ha da anni assunto in un continente immenso. Fin da quando “invase” un’ampia fetta del Congo, un paese novanta volte più esteso.

Oggi il Ruanda guida assieme a Etiopia e Guinea Equatoriale la lista dei paesi subsahariani cresciuti a ritmo più veloce nel ventennio trascorso, ha predisposto l’agenda di riforma dell’intera Unione africana su richiesta di quest’ultima, e i suoi soldati sono in Mozambico – di nuovo un paese decine di volte più grande – per rispondere ai jihadisti che il governo locale da solo non riesce a domare.

Due Ruanda

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Ben altro paese quindi rispetto al Ruanda del genocidio? Le stragi in cui nel 1994 morirono circa 800mila persone, prevalentemente della minoranza tutsi e sotto l’impulso di un regime nelle mani degli hutu, sono il primo pensiero solitamente associato al Ruanda. Da allora i ruoli si sono in parte scambiati: il governo che i tutsi riuscirono a insediare nel fermare i massacri è quello che ancora tira le fila a Kigali.

Ma parlare di un paese oggi diverso e rinnovato è in un certo senso riduttivo. Il fatto è che, da allora, sono stati ricostruiti non uno ma due distinti Ruanda. O meglio, così parrebbe stando ai due modi, tra loro diametralmente opposti, in cui il paese è da anni raccontato ed esaminato. Alternativamente celebrato o denigrato.

Le due narrazioni sono spesso sostenute, su fronti opposti, da anglosassoni entusiasti e francofoni critici. Una contrapposizione, nota la Wrong, accompagnata da stupefacenti livelli di reciproco odio e disprezzo, con dibattiti avvelenati paragonabili solo a quelli attorno a Israele e Palestina.

Singapore d’Africa

AP Photo/Muhizi Olivier

La “versione dominante” – chiamiamola così – ingigantisce il Ruanda, un paese grande come la Sicilia. In un quindicennio durante il quale, forti dell’idea che ci fosse finalmente un’Africa “emergente”, si è andati a caccia dei paesi da mettere sul podio, il Ruanda è presto diventato uno dei successi più acclamati.

Nell’arco di pochi anni, ad esempio, l’Economist ha pubblicato un’infilata di articoli encomiastici su questa novella “Singapore d’Africa”, nitida e sicura, ostinatamente dedicata ad attrarre investimenti e imprese estere, con tassi di crescita economica quasi ineguagliati (7,4 per cento medio annuo tra il 2000 e il 2020), accompagnati non solo da sorprendenti innovazioni (programmi per il wi-fi gratuito in tutto il paese, digitalizzazione dei biglietti per i trasporti pubblici urbani nella capitale, e addirittura la sperimentazione dei droni per inviare materiali sanitari leggeri nelle zone rurali), ma anche da progressi sociali invidiabili a queste latitudini (da una copertura assicurativa sanitaria pressoché universale al rapido abbattimento della mortalità infantile).

E per non farsi mancare nulla, da tre anni il brand turistico nazionale “Visit Ruanda” è sponsor dell’Arsenal, blasonata squadra del calcio inglese.

L’uomo del cambiamento

AP Photo/Ben Curtis, File

Il perno attorno cui ha ruotato la rinascita ruandese è incarnato, in questo affascinante affresco, da un singolo protagonista. Paul Kagame è il leader di fatto dal giorno in cui, alla guida di un movimento ribelle penetrato dall’Uganda, mise termine ai mesi bui del genocidio, nel luglio di 27 anni fa. Da allora, il presidente ruandese ha ribaltato il paese come un calzino, pur costruendo su una società dal funzionamento già storicamente piuttosto strutturato e ordinato.

Si è così guadagnato una formidabile reputazione non solo dentro al continente – dove a più riprese ha richiamato i suoi omologhi a rivendicare con orgoglio la propria africanità, assumendosi però maggiormente le loro responsabilità – ma anche fuori (Kigali venne scelta per ospitare il primo World Economic Forum on Africa, nel luccicante “convention centre” che ha reso la capitale una destinazione consolidata per le conferenze internazionali).

Presto indicato come uno dei più promettenti “nuovi leader africani”, Kagame ha sedotto schiere di capi di governo occidentali, che in tutta risposta hanno innaffiato di abbondanti aiuti il paese. A fare da sfondo a tutto questo, il perdurante senso di colpa dell’occidente per non essere intervenuti a fermare la maggiore tragedia della fine del secolo scorso.

Il secondo Ruanda

Il quadro sembra quindi netto e preciso. L’entusiasmo così diffuso e coinvolgente, però, da oscurare a lungo i segnali che indicavano che sotto il tappeto c’era qualcos’altro. Non rovinate il successo, non dubitate del paese modello, non scuotete il sistema. “Do not disturb”. Come sul cartellino esposto fuori dalla stanza d’albergo sudafricana in cui, nel 2014, Patrick Karegeya, ex-capo dell’intelligence di Kagame poi fuggito in esilio e divenuto critico del regime, venne trovato ucciso da sicari inviati da Kigali.

Michela Wrong conosceva personalmente Karegeya – così come ha conosciuto direttamente un’ampia parte dei personaggi, interni ed esterni al Ruanda, dell’investigazione che ci propone – ma il suo è solo uno di una lunga lista di nomi su cui negli anni si è abbattuta la miratissima repressione del regime. I più recenti giusto nelle settimane scorse.

In Mozambico, con un governo forse ammorbidito dall’appoggio ruandese contro i jihadisti, a metà settembre è stato ucciso Révocat Karemangingo, un esponente di spicco della comunità dei rifugiati ruandesi percepito come minaccia dal suo paese d’origine. Nessuno dubita da dove siano arrivati gli ordini di colpirlo. Intanto a Kigali, negli stessi giorni, Paul Rusesabagina, internazionalmente noto come l’eroe di Hotel Ruanda, il pluripremiato film che gli rese omaggio per aver salvato centinaia di persone durante il genocidio alloggiandole nell’albergo che gestiva, è stato condannato a 25 anni di carcere per terrorismo.

Rusesabagina aveva vissuto per anni in esilio ed era divenuto critico del governo, e certo è stato coinvolto con i gruppi di opposizione fuori dal paese, forse anche inviando denaro a una formazione armata. L’anno scorso era stato incredibilmente indotto a imbarcarsi su un piccolo aeroplano, a Dubai, convinto di essere diretto in Burundi, il paese gemello che confina con il Ruanda. Ma l’atterraggio fu a Kigali: Kagame non ama condividere la fama, non dimentica, e non perdona. È questo il secondo Ruanda.

Retromarcia

Esperta corrispondente di grandi testate, per anni direttamente presente nella regione, la Wrong fu a lungo pienamente convinta dalla narrazione del “nuovo Ruanda”, e contribuì a diffonderla. Le ci sono voluti vent’anni per decidersi ad ascoltare le altre voci, a sbirciare meglio sotto il tappeto, e poi a risolversi ad affrontare l’intera questione in maniera più sistematica per cercare di fare chiarezza. Per sé stessa, anzitutto.

Ne è uscita con posizioni stravolte dai risultati delle sue indagini. E ha trovato la forza per ammettere di aver «involontariamente ingannato i miei lettori» con i suoi precedenti scritti, o almeno con parte di essi. Effettuata l’inversione, la venerata immagine di Kagame risulta totalmente rivista. Messo in discussione il suo ruolo nel successo militare del movimento ribelle che prese il potere a Kigali, raccontate le sue responsabilità negli eccidi condotti e nascosti dai suoi guerriglieri, di cui si sa ancora poco.

Esposta la sua mancanza di carisma – almeno in patria, dove incuterebbe paura più che rispetto – le sue personali frustrazioni e la sua violenta vendicatività. Perfino i dati sui successi mietuti dallo sviluppo ruandese vengono messi in questione: sarebbero ben troppo rosei rispetto ai progressi reali.

Narrazioni

Il Ruanda dunque è un paese doppio. E noi che lo osserviamo ci sentiamo un po’ strabici, confusi, manipolabili. Siamo posti anche di fronte a interrogativi non facili: sulla via dello sviluppo, ci sono costi che sono accettabili? Quali e fino a che punto?

Ma questa nuova “questione ruandese” – che non riguarda scontri o coesistenza tra hutu e tutsi, ma la rappresentazione che si dà del paese al di fuori dei suoi confini – ha in realtà una portata che va oltre Kigali. Se è vero che, come recita il proverbio africano reso celebre dallo scrittore nigeriano Chinua Achebe, «fino a quando i leoni non avranno i propri storici, la storia della caccia glorificherà sempre il cacciatore» (un detto inteso principalmente a insinuare i necessari dubbi su come l’occidente ha da sempre dipinto aree “altre”, inclusa quella africana), il Ruanda dell’ultimo quarto di secolo ci ricorda che anche il leone può essere scaltro, tutt’altro che disinteressato nel raccontare la sua storia. Abile nel nasconderne e negarne le ombre.

Più in generale, dietro alle narrazioni cui ci affidiamo ci sono non solo un’incompletezza di informazioni, ma anche, per definizione, delle scelte, e queste difficilmente sono imparziali. Non è certo solo l’Africa a subire queste dinamiche, ma il continente e i paesi che ne fanno parte – paesi in cui contropoteri e pluralismo sono spesso deboli – possono risultare particolarmente esposti e vulnerabili. (La Cina, che sa bene quanto sia importante quel che viene detto e come, sta investendo nei media africani: anche il dragone vuole raccontare la storia a modo suo).

E vulnerabili possiamo esserlo noi quando posti di fronte al racconto di quanto accade a latitudini come quelle africane, un po’ distanti e da noi poco monitorate. Lo scoppio della guerra in corso da fine 2020 nella regione del Tigray, in Etiopia, ad esempio, non è stato solo l’avvio degli scontri militari, ma ha scavato una profonda divisione tra opposte letture del conflitto. Attori e osservatori che attribuiscono colpe e responsabilità in maniera specularmente inversa alle parti in guerra, con schieramenti contrapposti che attraversano le fazioni politiche, i media internazionali e i social.

Fino a dividere lo stesso consiglio di sicurezza dell’Onu, dove il governo di Addis Abeba è spalleggiato da Cina e Russia nel difendere la propria autonomia d’azione e tenere a freno le accuse mosse dai paesi occidentali di essere responsabile di una crisi umanitaria e forse anche di crimini di guerra. Una comunità internazionale divisa dunque nel supportare interpretazioni contrapposte del conflitto, il riflesso di una competizione tra modelli di governo, principi dell’ordine globale, alleanze, e accesso risorse. Come per il Ruanda, provare a comprendere richiede di non fermarsi alla prima versione del racconto. E capire che la storia non è mai una sola, e non è mai una volta per tutte.

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