La vita dell’ex primo ministro Abe Shinzo è stata stroncata da due colpi di fucile a canne mozze il venerdì mattina durante un comizio in supporto a un candidato del Partito liberal democratico (Pld) impegnato nelle elezioni per la Camera alta del parlamento del 10 luglio. Le informazioni disponibili al momento lasciano intendere che l’omicida, un ex militare della marina giapponese subito arrestato e interrogato, fosse uno squilibrato.

Le prime testimonianze suggeriscono che questi serbasse «rancori verso un’organizzazione religiosa (non identificata dalle forze dell’ordine, ndr) e la vicinanza di Abe a questa, non verso il credo politico di Abe». Quale credo? Il retaggio nazionalista e la formazione nel cuore dell’establishment di destra del Pld ne hanno favorito la rapida ascesa, preservandone l’idealismo di destra. Egli manifestò la chiara ambizione a riguadagnare una posizione di preminenza per il Giappone sulla scena internazionale, con un occhio di riguardo per questioni di sicurezza nazionale, prosperità e prestigio.

Abe ereditò tali ideali dal controverso nonno materno, Kishi Nobusuke. Questi fu responsabile per le politiche industriali nello stato fantoccio del Manciukuò, politiche che inclusero il lavoro forzato, quindi ministro delle Munizioni nel governo di Hideki Tōjō, responsabile dell’apertura delle ostilità contro gli Stati Uniti nel dicembre del 1941. Kishi fu sospettato di crimini di guerra di classe A, ovvero responsabile per crimini contro la pace, ma fu in seguito rilasciato e appoggiato spesso segretamente dagli Stati Uniti, in relazione alla necessità di promuovere il Giappone in chiave anti sovietica. Successivamente sarebbe divenuto primo ministro del Giappone postbellico tra il 1957 e il 1960.

Potere esecutivo

Il pensiero di Abe presenta similarità sorprendenti con quello del nonno materno, a partire dal desiderio di emularne il combattivo stile politico e le strategie di grande respiro e di taglio conservatore. In vero, Abe ha affermato l’ufficio della presidenza del consiglio (il Kantei) come “torre di controllo” dell’operato del governo tutto, cosa non da poco in un mondo politico – quello del Giappone del Dopoguerra – tradizionalmente a trazione centrifuga e votato alle logiche del consenso. Si pensi ad esempio alle politiche fiscali e monetarie ultra-espansive che hanno preso il nome del primo ministro (Abenomics), emulate in parte dalla Banca centrale europea e viste di buon occhio da Matteo Salvini, o ai trattati di libero scambio tra Unione europea e Giappone quindi del Trans-Pacific Partnership rivisto. Questi sono solo alcuni degli esempi della leadership esercitata dal Kantei.

Eppure, Abe assegnò la precedenza ad altre questioni: sicurezza nazionale e recupero del ruolo di “paese di prima lega” su tutti. In primis, i «compiti lasciati dal governo di Nobusuke Kishi» ovvero all’emendamento della costituzione post bellica anti militarista, che limitava il mantenimento e l’utilizzo di armamenti solo a quelli necessari per la legittima difesa nel caso di aggressione esterna. La prospettiva di Abe fu sempre quella di una maggiore autonomia militare, al netto della necessità di allacciare più profondi rapporti con gli Stati Uniti e partner like-minded. La reinterpretazione dell’Articolo IX, avvenuta il 1° luglio del 2014 attraverso una decisione dell’esecutivo Abe, ed una serie di riforme sulla sicurezza nazionale di portata rivoluzionaria hanno permesso alla terza economia mondiale di esercitare – per la prima volta dal Dopoguerra – un ruolo strategico a tutti gli effetti, sul piano militare, economico e di diplomazia pubblica.

Va ricordato, ad esempio, che la visione strategica a favore di un Indo-Pacifico libero e aperto, nonché il dialogo di sicurezza quadrilaterale (tra Australia, Giappone, Usa e India) sono state appropriate e promosse sì dall’America di Trump, quindi di Biden, ma nascono a Tokyo con la prima amministrazione Abe del 2006-07. Tali iniziative hanno permesso al Giappone il diritto di esercitare una diplomazia più muscolare, soprattutto nei confronti della Cina guglielmina di Xi Jinping, di cui Tokyo cercava di arginare gli irredentismi territoriali (e marittimi) e le spinte verso un’egemonia regionale.

Il Giappone di Abe si è fatto quindi portabandiera della difesa di un ordine internazionale basato sulle regole, anche attraverso la logica della deterrenza/presenza militare in teatri regionali lontani dalle coste dell’arcipelago; si pensi al Mar Cinese Meridionale. Tali misure hanno accompagnato un uso strategico di leve economiche sullo scacchiere Indo-Pacifico per negare sfere d’influenza alla Cina che ne avrebbero presagito una “dottrina Monroe” con caratteristiche cinesi. In funzione anticinese Abe ha dimostrato un supporto quasi romantico a Taiwan e all’India di Narendra Modi, di nuovo riprendendo il copione del nonno, cercando inoltre aperture con la Russia di Putin, seppur senza successo.

Nazionalista fervente

Facendo fede ai suoi ideali, Abe fu un fervente nazionalista sensibile alla restaurazione dell’ethos e dei valori tradizionali peculiari alla storia dell’arcipelago. Abe ha attivamente promosso sentimenti patriottici nel convincimento che il «superamento del regime post bellico» comportasse l’affrancamento definitivo dalle politiche e dalle leggi imposte dalle forze di occupazione Usa nel Dopoguerra, in modo da poter procedere alla riappropriazione dell’identità culturale e della “soggettività” del Giappone, da lui intesa come il primato della comunità, e soprattutto dello stato, sull’individuo. Tale ideologia fu alla base, ad esempio, dell’emendamento del 2007 della Legge fondamentale sull’istruzione, atto ad enfatizzare i valori di gruppo e della comunità e, in particolare, dello stato-nazione. Tale riforma aveva modificato l’impostazione di taglio liberale imposta nel dopoguerra.

Parte del nazionalismo di Abe fu la sua personale visione storica revisionista, orientata a minimizzare le responsabilità coloniali e di guerra del Giappone durante la prima metà del XX secolo. Va rintracciato proprio nel pedigree e nel credo di Abe, quindi, la sfiducia e i sospetti di Cina e Corea del Sud in primis. Vero è che nel 2006-2007 e durante la maggior parte del suo secondo mandato tra il 2012 ed il 2020, esigenze di governo (nonché pressioni americane durante la presidenza Obama) hanno imposto ad Abe di ribadire le dichiarazioni di Kōno del 1993 e di Murayama del 1995.

La dipartita di Abe dal governo nel 2020 non ne ha inficiato le capacità di shadow shogun come leader della principale fazione del Pld. Insieme al fratello Kishi Nobuo, attuale Ministro della Difesa, Abe ha visto confermata la legacy in politica estera e di sicurezza sotto i governi di Suga e Kishida. La visione strategica a favore di un Indo-Pacifico libero e aperto trova maggiori sponde con l’Europa e l’Italia, come evidente dall’allineamento di Tokyo alle sanzioni verso la Russia e agli aiuti a Kiev, nonché dall’invito di Kishida al summit Nato conclusosi da poco a Madrid. Sull’onda dell’emotività per l’assassinio di Abe il Pld vedrà verosimilmente aumentati il numero dei seggi nella Camera alta, se la strada per il tanto agognato emendamento costituzionale voluto da Abe rimane impervia, altre riforme di sicurezza che il Pld eredita dall’ex primo ministro, quali la dotazione di missili di breve e media gittata a uso offensivo, potrebbero presto vedere la luce.

 

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