Gridare allo scandalo perché Erdogan ha ricevuto i vertici di Hamas non aiuta a capire cosa il reis stia davvero facendo. Forse sta riuscendo ad ottenere un’intesa tra Hamas e Israele: liberazione di tutti gli ostaggi e disarmo contro la promessa di non attaccare Rafah.

Se accade questo sarebbe un vero game changer. Di segno diverso era il tentativo di Mohamed Bin Salman (Mbs), il principe ereditario saudita, che vorrebbe la distruzione totale del gruppo terrorista palestinese per riprendere la via degli accordi di Abramo.

In altre parole, mentre uno vuole che i fondamentalisti rimangano in gioco, i secondi vogliono prenderne il posto. Da entrambi, in particolare dal leader turco, ci si deve sempre attendere sorprese: non agiscono mai per motivi ideologici o a colpi di improvvisazioni.

Soprattutto Erdogan non usa quella comunicazione con effetti-annuncio alla quale sono invece molto abituati i leader occidentali: semmai quest’ultima viene solo dopo.

La strategia di Erdogan si va progressivamente chiarendo: dopo un’iniziale diffidenza con i vertici di Hamas per non essere stato avvisato delle loro intenzioni, tenta ora di salvare ciò che resta del movimento di resistenza nazionale palestinese (acronimo di Hamas) mentre l’offensiva israeliana cerca di azzerarlo.

Il silenzio delle monarchie arabe dimostra che non sono contrarie all’obiettivo israeliano che invece i turchi vorrebbero evitare. A Istanbul i capi di Hamas si stringono attorno al leader turco per ragionare di futuro.

L’intenzione di Ankara è di mantenere viva, almeno a livello politico, la tendenza fratelli musulmani che Hamas rappresenta (e che Erdogan incarna), inserendola nella ricomposizione della leadership palestinese.

Ma per ottenere tale risultato Hamas deve essere obbligatoriamente disarmata, rinunciando alla propria ala militare (le brigate al Qassam), quella che ha compiuto il pogrom del 7 ottobre, lancia missili contro Israele e gestisce gli attentati terroristici. Tra l’altro l’ala militare è la parte di Hamas più dipendente dall’Iran. La scommessa turca è di strappare il controllo di Hamas a Teheran per riacquistare un’influenza decisiva.

Su tale specifico punto anche i sauditi non hanno obiezioni: Teheran è nemica di tutti. Per ottenerlo i turchi devono convincere Hamas di rinunciare alle armi, sperando che ciò inneschi un effetto imitativo anche sulla Jihad islamica e gli altri gruppi armati minori.

Il lavoro diplomatico

Non si tratta di un programma semplice per i turchi: i capi di Hamas hanno opinioni diverse in merito e una decisione del genere necessita di una riunione del consiglio centrale, ora molto difficile da convocare.

Erdogan sta dunque tentando un vero tour de force: se riesce avrà compiuto un “quasi miracolo politico”. Resta da vedere se gli israeliani, che puntano al completo annientamento di Hamas, manterrebbero la parola di non vendicarsi di Yahia Sinwar (almeno per ora).

Erdogan si preposiziona sperando di contare in avvenire e tiene conto dei sauditi: fa le sue mosse cercando di evitare l’ultima fase della guerra a Gaza, cioè l’atteso attacco israeliano a Rafah. Gli Stati Uniti e Mbs non lo gradiscono (sono troppi i civili uccisi) ma la destra estrema alleata del premier Netanyahu crede ancora che sia l’unica soluzione, forte dell’appoggio di quasi tutta l’opinione pubblica israeliana, sotto choc per il 7 ottobre.

Restava in sospeso la questione dei rapiti di cui non si parlava più e che Erdogan rimette sul tavolo. D’altronde Hamas ha interesse a contrattare dal momento che più passa il tempo e più i restanti rapiti ancora in vita rischiano di morire.

Nell’ultima tornata di colloqui non è riuscita a presentare nemmeno la lista di nomi che gli veniva richiesta ed i recenti video non dimostrano granché. Dal canto suo il governo di Israele non vuole che tale questione impedisca o rallenti i piani militari che rappresentano l’unica strategia dei radicali. 

Questo è il suo vero limite. Come ha scritto Ugo Tramballi sul Sole 24 Ore, Israele ha una storica tendenza a disperdere politicamente i risultati ottenuti combattendo e Netanyahu non fa eccezione.

Nel ‘56, nel ‘67 o nel ‘73 è sempre la stessa storia: Israele prevale sul campo ma non trasforma la vittoria in risultati politici stabili e utili. Anche ora è evidente che non sappia cosa fare a Gaza: attaccare Rafah e poi? Non c’è accordo né dentro il gabinetto di guerra ristretto né nel governo sul dopo: dove sistemare i due milioni di palestinesi? che fare dei prigionieri di Hamas (pare che Ben Gvir abbia litigato nell’esecutivo perché voleva la loro eliminazione fisica) restare o no nella striscia? accettare il piano saudita? E così via.

In tale indeterminazione sta la leva politica usata da Erdogan. L’Egitto è irremovibile: niente palestinesi nel Sinai. D’altronde non parrebbe interesse israeliano trasformare una penisola già poco controllata e in mano a jihadisti e beduini contrabbandieri (i tunnel di Gaza sono loro ad averli inventati), in una nuova bomba a scoppio ritardato.

Allontanare geograficamente la minaccia non fa che ritardarla ma di certo non la elimina. Thomas Friedman – editorialista del New York Time e molto critico verso il governo di Israele – batte sul tasto saudita: per Tel Aviv sarebbe meglio accettare il “piano arabo” lasciando il controllo della striscia ad una forza araba come vuole Mbs (ma non Erdogan).

Ciò creerebbe, secondo Friedman, «il più grosso ponte mai esistito con il mondo arabo» e salverebbe Israele dall’attuale isolamento. È proprio ciò che non vogliono i partiti millenaristi e suprematisti che sostengono l’attuale governo.

Per Israele accettare una forza araba significa perdere stabilmente e per sempre il controllo di Gaza la quale diverrebbe un territorio davvero autonomo, non più isolabile dal resto del mondo. I sauditi vi costruirebbero porto e aeroporto aprendo i confini della striscia almeno al mondo arabo, pur mantenendo il controllo.

Ciò non piace alla destra radicale israeliana che va ben oltre il piano “dal fiume al mare”: come si vede dall’atteggiamento aggressivo nella West Bank, tale tendenza vorrebbe acquisire per la Grande Israele anche altri territori ad iniziare dall’annessione della Cisgiordania. Figurarsi se rinuncia a Gaza.

In tale intrico politico-ideologico Netanyahu rischia di far perdere al suo paese ancora una volta la pace: distrugge Hamas ma prepara una nuova ribellione a causa della mancanza di una politica sostenibile per il futuro.

È evidente che non si può fare a meno di trovare una soluzione politica che includa anche i palestinesi (e gli arabo-israeliani). Demograficamente il peso tra ebrei e arabi (palestinesi e arabi israeliani) si equivale e comunque non si può fare a meno di considerare una composizione plurale.

Uno stato bi-etnico con pari diritti? Due stati? Nessuna delle due formule piace alla destra israeliana che non sa cosa proporre se non la pulizia etnica o la segregazione, oggi impossibili. La proposta di Erdogan si rivolge in particolare ai palestinesi mentre quella dei sauditi offre una partnership inedita agli israeliani.

Unità politica

La Turchia rimane nello schema precedente: rifare subito l’unità palestinese (inclusa Hamas disarmata) per contrapporla politicamente ad Israele. Riad innova rimandando a dopo la soluzione tra palestinesi il cui futuro diverrebbe un “problema arabo”.

Non era quello che voleva il vecchio Likud prima di cadere ostaggio dei suprematisti? In tale contesto di lotta fra influenze turche e saudite, la condotta della guerra aggiunge un problema e rende la vita difficile a Netanyahu: si moltiplicano le notizie delle brutalità da parte dell’esercito israeliano sui civili palestinesi e c’è stata la scoperta di fosse comuni.

Sugli stessi media israeliani infuriano le polemiche e montano le proteste contro i ministri estremisti al potere, Smotrich e Ben Gvir, accusati di trasformare Tsahal in una milizie privata e estremista e di riempire il paese di gruppi armati irregolari formati da coloni. Un’involuzione che rende ancora più arduo per Israele compiere scelte politiche lucide e consapevoli. 

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