La corsa senza freni dell’inflazione in Turchia, con i suoi effetti devastanti sul potere di acquisto delle classi più povere, potrebbe decidere il destino politico del presidente filoislamico Recep Tayyip Erdogan (così come potrebbe accadere lo stesso negli Stati Uniti per Joe Biden).

Ma perché tanta enfasi sul corso dei prezzi al consumo in un mercato emergente? Presto detto. Dopo che Erdogan ha costretto una serie di governatori della Banca centrale turca a tagliare i tassi di interesse su pressione della lobby degli immobiliaristi come cura per l’inflazione, nonostante ci siano teorie economiche consolidate secondo cui una politica monetaria accomodante aggrava l’inflazione, innesca la fuga di capitali stranieri e indebolisce la lira.

Così l’indice dei prezzi al consumo, il Cpi, è diventato sempre più distaccato dalla realtà. Il tasso di sconto ufficiale al 16 per cento è già ben al di sotto dell’inflazione stessa, poiché la banca centrale ha tagliato di 300 punti base quest’anno, sempre sotto la pressione del presidente Erdogan che non rispetta l’autonomia dei banchieri centrali.

Battaglia mediatica

L'inflazione “core”, che esclude energia e cibo, è scesa al 16,82 per cento da quasi il 17 per cento del mese precedente. In effetti Erdogan sta lottando sui media locali per controllare la narrazione sull’inflazione, ma sempre con meno successo.

Su Twitter Wolfgango Piccoli, co-direttore della società di analisi sui rischi globali Teneo, ha scritto: «Ankara oggi ha negato che il ministro delle Finanze Elvan si sia dimesso o abbia presentato le sue dimissioni. All’inizio di questa settimana, Ankara ha dovuto smentire le voci su problemi di salute di Erdogan».

Non solo. «Il governo turco – prosegue Piccoli – sembra aver perso il controllo della narrazione politica (e non solo). Fatto piuttosto straordinario dato il controllo dell’Akp, il partito di maggioranza, sulla maggior parte dei media nel paese».

Ma c’è di più. Secondo l’Inflation Research Group, società indipendente che monitora molti più dati sui prezzi turchi rispetto all’agenzia statale, la “vera” inflazione mese su mese a settembre non era quella ufficiale dello 0,97 per cento ma del 3,61 per cento, confermando l’ipotesi che il tasso di inflazione su base annua sia più vicino al 30 per cento rispetto al 20 per cento ufficiale.

Possibile? Ridurre i salari del 30 per cento spiegherebbe l’aumento dei livelli di povertà e il declino della popolarità nei sondaggi di Erdogan che non a caso alle amministrative ha perso la gestione di Istanbul, metropoli di 16 milioni di abitanti di cui 2,5 milioni residenti stranieri, di cui mezzo milione di rifugiati siriani.

Scaricare le responsabilità

A fronte di un continuo aumento dei prezzi che si registra dall’estate del 2019, Erdogan aveva nei giorni scorsi annunciato l’apertura di mille nuovi supermercati cooperativi finanziati dallo stato, progetto che è rimasto nel cassetto.

Il presidente turco aveva anche accusato le cinque principali catene di supermercati del paese della Mezzaluna sul Bosforo di manipolare i prezzi in modo «opportunista».

Dopo un’inchiesta da parte del ministero del Commercio, il 29 ottobre le cinque catene di supermercati di Turchia (Migros, Carrefour, Bim, Sok e A101) sono state ritenute colpevoli di concorrenza sleale e multate in tutto per 2,6 miliardi di lire turche, circa 233 milioni di euro.

Ovviamente le società hanno negato ogni addebito parlando di rincari dei prezzi determinati da fattori esogeni alla loro competenza come la politica monetaria. L’inflazione in Turchia ha fatto registrare un aumento del 2,39 per cento su base mensile che ha portato il tasso nel mese di ottobre a un incremento del 19,89 per cento rispetto allo stesso mese del 2020.

Preoccupante anche l’incremento del prezzo di gas ed energia elettrica (produzione e distribuzione), aumentati del 4,61 per cento su base mensile e del 53,37 per cento su base annua. A contribuire a questa difficile situazione il continuo taglio degli interessi voluto da Erdogan, che ha cambiato direttore della Banca Centrale per ben tre volte in 48 mesi.

All’aumento dei prezzi è corrisposto una svalutazione della lira turca, che la scorsa settimana ha toccato il minimo storico.

La versione di Erdogan

Per Erdogan invece la musica è tutta diversa. Entro la fine dell’anno la Turchia potrebbe raggiungere una crescita a doppia cifra. Lo ha dichiarato lo stesso presidente, in un videomessaggio trasmesso in occasione del vertice Turchia 2023 organizzato da Turkuvaz Media.

«Pensiamo di raggiungere tassi di crescita a due cifre entro la fine dell’anno. Continueremo ad aumentare la crescita sulla base dell’export, investimenti e dell’occupazione, senza dare credito ai profeti di sventura», ha dichiarato Erdogan, che in passato ha gridato al «complotto dei mercati internazionali».

Secondo il presidente turco si stanno compiendo passi di normalizzazione in molti settori. Erdogan ha affermato che l’economia globale ha iniziato a riprendere il suo precedente ritmo dopo la contrazione nel 2020, la produzione e le esportazioni sono aumentate e si è assistito a una ripresa del turismo.

Secondo le previsioni della Banca europea per la ricostruzione lo sviluppo (Bers), con sede a Londra, l’economia turca crescerà del 9 per cento quest’anno, ma le incoerenti decisioni della Banca centrale e l’elevata inflazione potrebbero danneggiare la ripresa.

La Bers ha anche affermato che si aspetta che l’economia turca si stabilizzi vicino a una crescita potenziale del 3,5 per cento nel 2022, sottolineando i possibili rischi collegati all'aumento dei prezzi dell’energia e al taglio prematuro dei tassi interesse.

Quanto alla stagione turistica si può dire che l’hanno salvata in parte i turisti russi e arabi perché da Europa e Usa non è arrivato praticamente nessuno. Un segnale di come il destino politico di Erdogan sia appeso alla ripresa dell’economia ma soprattutto alla difesa del potere di acquisto delle famiglie più disagiate, asse portante del suo successo politico ventennale.

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