Mentre i combattimenti proseguono malgrado la tregua concordata con il segretario di Stato Usa Antony Blinken, l’Onu ridispiega la sua presenza nel paese ma non se ne va.

Volker Perthes, capo della missione delle Nazioni unite in Sudan (Unitams), rimane nella capitale nonostante la guerra. Un piccolo numero di funzionari rimarrà a Khartoum assieme al rappresentante speciale che è in Sudan dal 2021 ed è stato il direttore dell’Istituto tedesco per gli affari internazionali e di sicurezza (Swp).

Chi rimane

Temporaneamente una parte del resto dello staff è stato spostato a Port Sudan, mentre altri sono stati trasferiti nei paesi limitrofi. L’Onu ha 877 impiegati  internazionali, oltre che 3.272 sudanesi, sparsi tra la capitale ed altre città, in particolare del Darfur.

Circa 700 fra costoro hanno già raggiunto Port Sudan via terra, mentre un centinaio è stato evacuato verso il Ciad da El Geneina (Darfur occidentale) e Zalingei (Darfur centrale). Altre operazioni sono in corso o in programma nei prossimi giorni.

La decisione di rimanere fa di Perthes forse l’unico occidentale ancora presente a Khartoum, a parte alcuni membri delle Ong (come i circa 40 italiani dell’ospedale al Salam di Emergency) e i missionari. La chiusura di tutte le ambasciate europee e di quella americana è stata immediata creando una scia di chiusure anche di altri paesi e lasciando il paese senza interlocutori sul posto.

L'ipotesi degli Usa

Forse ripensando a tale drastico provvedimento il presidente Joe Biden ha dichiarato che gli Stati Uniti stanno pensando a come riprendere piede nel paese, magari posizionando qualche diplomatico a Port Sudan che rimane ancora tranquilla.

Chiudere del tutto un’ambasciata (come nel caso dell’Afghanistan ma anche della Siria) è certamente in linea con i criteri di sicurezza: basti ricordare l’uccisione del console americano a Bengasi e le polemiche che ne sono seguite.

Si tratta tuttavia di una scelta grave che indica un giudizio negativo e quasi definitivo sul futuro del paese interessato. Inoltre riaprire è sempre un processo più lento rispetto alla chiusura.

Mantenere una presenza ridotta a Port Sudan (città tra l’altro sul mare e quindi con molteplici vie di fuga se necessario), è lasciare una porta aperta e potrebbe diventare un messaggio di speranza e di non abbandono, oltre che essere un’utile soluzione temporanea in termini logistici.

La tentazione russa

Mentre anche turchi e sudafricani hanno iniziato le evacuazioni dei loro concittadini, i britannici proseguono i voli verso Cipro dalla base aerea di Wadi Seidna: sono circa 4mila i cittadini del Regno Unito presenti in Sudan.

I russi non hanno ancora deciso se sgomberare i propri diplomatici e connazionali presenti nel paese. Si parla molto della Russia sui media occidentali e alcuni sostengono che la Wagner sia dietro una delle parti combattenti, quella di Dagalo Hemedti, comandante delle rapid support forces (Rsf).

Tuttavia si tratta piuttosto di un doppio gioco rivolto ad entrambe le parti e volto ad occupare spazi politico-militari laddove altri interlocutori abbandonano o siano assenti.

Mosca non prende il rischio ad appoggiare uno dei due contendenti, vista la situazione estremamente fluida ed incerta. Come tutti, anche i russi sono interessati ad avere una presenza forte in Sudan perché il paese rappresenta un crocevia tra Africa e Medio Oriente e una porta verso il Corno d’l'Africa ed altri paesi vicini dell’Africa centrale o il Ciad.

Per questo il ministro degli esteri Sergey Lavrov durante la sua visita a Khartoum aveva incontrato sia il presidente al Burhan sia il vice Hemedti.

Il vero obiettivo del Cremlino è ottenere la base navale sulla costa del Mar Rosso, che era stata promessa dal precedente regime di Omar al-Bashir prima della sua caduta nel 2019. Per quanto riguarda la Wagner, Evgeni Prigojin ha dichiarato a Jeune Afrique di non avere nessun soldato in Sudan anche se sono in molti a sospettare che abbia fornito o stia fornendo armi soprattutto a Hemedti con il quale è in affari sulle miniere d’oro sia in Sudan che in Centrafrica.

Il caos

Va detto che per i mercenari russi non tutto funziona per il meglio in Africa: in Mali hanno avuto delle perdite in un recente simultaneo attacco jihadista a tre basi (Sévaré, Niono e Bapho) a non più di 200 chilometri da Bamako.

Come per chiunque altro, anche la presenza russa subisce i contraccolpi dell’instabilità generale africana: in Burkina la Nordgold russa ha abbandonato la miniera d’oro che stava gestendo a causa dell’instabilità.

In Sudan fuori dalla capitale la situazione del conflitto appare a pelle di leopardo ma mostra anche come la società civile sudanese sia attiva nel processo di pacificazione: mentre a El Geneina, capoluogo del Darfur occidentale, i combattimenti continuano molto aspri, a El Facher, capitale del Darfur settentrionale, l’esercito e le RSF hanno accettato un cessate il fuoco negoziato dalla società civile.

Anche a Nyala, nel Darfur meridionale, un’analoga iniziativa civile ha garantito per ora una calma relativa. Nessuna delle due parti ha rivendicato l’attacco alla prigione di Kober da cui sono fuggiti nei giorni scorsi migliaia di detenuti, respingendo ogni responsabilità sulla possibile liberazione dell’ex presidente Omar el Bechir.

È possibile che nel caos generale stiano agendo autonomamente gruppi armati con specifiche agende, aumentando la confusione ed il pericolo per i cittadini. Seppure la maggioranza dei sudanesi diffida dei miliziani di Hemedti, si teme anche il ritorno dei rappresentanti del precedente regime islamo-militare, i cui elementi sono infiltrati nell’esercito regolare.

A creare ulteriore inquietudine è la notizia che il laboratorio nazionale di salute pubblica sia stato occupato da non meglio identificati uomini armati: l’Oms lancia un allarme di rischio biologico se il materiale delicato conservato (come la polio, il colera o il morbillo) fosse disperso nell’ambiente. 

© Riproduzione riservata