Come intendere i referendum svoltisi a Zaporizhzhia, a Kherson, nel Donetsk e a Luhansk? Non è sufficiente dichiararli una farsa, non riconoscerne gli effetti, ricordarsi sempre di premettere “autoproclamate” parlando delle repubbliche autonome. Bisogna partire da più lontano, esaminare ben più in profondità.

In una celebre fotografia, l’11 marzo 1938 i soldati della Wehrmacht spezzano le barriere che segnavano il confine con l’Austria, e annettono il paese. È l’Anschluss, la premessa della Seconda guerra mondiale. Con una grande campagna propagandistica e forti intimidazioni, si erano svolti dei referendum, sia in Germania, sia in Austria. In entrambi i paesi il Sì vinse con oltre il 99 per cento dei voti.

Come nel 1938 in Austria, così il 24 febbraio del 2022 le armate della Federazione russa hanno violato i confini dell’Ucraina. Ma a differenza degli austriaci, gli ucraini non hanno accolto con favore gli invasori come forse i russi speravano. L’invasione si è tramutata in guerra, nella prospettiva di conquistare territorio. Dove hanno potuto, i russi hanno marciato, occupato, bombardato, distrutto case e palazzi, straziato donne e uomini. Hanno così conquistato alcune province di confine, per loro le più ambite.

Ma poiché la brutalità rimane pur sempre un che di provvisorio, di irrisolto, alla vittoria sul terreno deve seguire una qualche più solida acquisizione del territorio. È quello che sedicenti pacifisti nostrani chiamano “la soluzione diplomatica”. Il primo passo è la “statualizzazione”: si emettono nuovi documenti di identità, si cambiano i nomi dei luoghi, la valuta, i testi scolastici, si procede a deportare i giovani, inventando campi estivi e traslochi di orfanotrofi. E anche questo è solo un primo passo.

Manipolazioni etniche

Tra i tanti testi proclami e discorsi di tenore simile, in aprile un articolo pubblicato dall’agenzia stampa russa RIA Novosti, firmato dall’editorialista Timofey Sergeytsev ha delineato gli obiettivi ulteriori dell’invasione: la completa de-ucrainizzazione del paese, un processo lungo e intenso, da dispiegarsi in venticinque anni. Inizia col negare ogni forma di autonomia amministrativa, sottoponendo il paese al governo diretto russo, quindi eliminando ogni traccia dell’identità nazionale – anzi il nome stesso del paese –, sottoponendo l’élite a un processo di rieducazione e di espiazione, rimodellando di conseguenza istruzione e cultura. Eventuali nuclei di resistenza antirussa, i “russian haters”, dovranno essere deportati nelle province occidentali cattoliche. 

Non mancano gli esempi nella storia di simili profonde manipolazioni etniche. I più noti e cruenti avvengono attorno alla Seconda guerra mondiale, ma vi sono tanti altri casi fuori d’Europa; basti pensare allo sterminio dei Tutsi in Ruanda nel 1994, o agli uiguri in Cina.

Ma della cancellazione di un popolo esiste un modello assoluto, quello delineato fin dal marzo 1940 dal Reichsführer delle SS Heinrich Himmler per i territori occupati, cominciando dalla Polonia. Al fine di «liquidare il concetto stesso di Polonia», di «esaurire razzialmente» il ceppo polacco, si sarebbe provveduto alla distruzione sistematica di ogni elemento culturale identitario, a destrutturare le nervature della società.

La “depolonizzazione” avrebbe implicato l’interdizione della lingua polacca, sarebbero stati germanizzati i nomi di famiglia, di strade e località, chiuse scuole superiori, università, teatri, biblioteche, giornali, case editrici, distrutto o esportato il patrimonio artistico, nelle poche biblioteche rimaste sarebbero stati eliminati i libri in inglese e francese, le opere di geografia, carte geografiche e atlanti. Il possesso di un apparecchio radio sarebbe stato punito con la morte. La scuola sarebbe stata limitata alle sole quattro classi delle elementari, con istruzione di base (calcolo semplice, scrittura del proprio nome, ubbidienza ai tedeschi, «quanto al leggere, non ritengo sia necessario»). Ridotta a massa lavorativa incolta, priva di capi, la popolazione avrebbe avuto lo svago di letterature erotico-pornografica, spettacoli in polacco maccheronico, favoriti alcolismo e pratiche abortive.

Il rovesciamento del nazismo

Applicato alla Polonia, (ma non soltanto: il documento tedesco parlava anche di «far scomparire dal nostro territorio l’idea del popolo ucraino..»), il progetto delineato da Himmler rappresenta la massima teorizzazione di denazionalizzazione, che solo attraverso la lucida e accurata espressione nazista può offrirsi come modello universale. I russi ne hanno fornito una versione speculare, con un rovesciamento di grande effetto.

Evocando le reminiscenze che l’adesione al nazismo in funzione antirussa aveva trovato in Ucraina (adesione impersonata dalla controversa figura del collaborazionista Stepan Bandera), e d’altra parte conoscendo l’immediato significato del nazismo per gli occidentali, che insieme ai sovietici hanno combattuto il terzo Reich, i russi hanno definito come “nazista” la democrazia ucraina, e dunque hanno assolutizzato l’attacco a ogni forma di democrazia, implicitamente ”occidentale”, definendolo “denazificazione”. Dunque la cancellazione dell’identità ucraina e delle sue pretese democratiche tanto più deve essere radicale in quanto si presenta come estirpazione del nazismo. A rafforzarne il significato per il pubblico occidentale, il documento dell’agenzia Novosti prevede l’istituzione di “Tribunale di Norimberga” per i “nazisti” ucraini.  

Per i russi, la democrazia ucraina ha dunque valenza nazista e giustifica una risposta militare totalitaria. A questa strategia si unisce però l’adozione di un referendum popolare, con i suoi tipici rituali “democratici” mutuati dall’odiato occidente: schede, firme, urne, siparietti (salvo..). Dov’è il nesso? Per spiegarlo, dobbiamo ripartire da uno scenario del tutto diverso. O forse no.

Volontà collettiva

Quando don Calogero Sedara, il sindaco di Donnafugata, ha proclamato i risultati del plebiscito per l’annessione della Sicilia al regno di Sardegna, risultava che gli iscritti fossero 515, i votanti 512, i sì 512, i no zero. In un momento di rispettosa confidenza, don Ciccio Tumeo, organista fedele al sovrano e al principe, si sfogò: lui aveva votato no, ma quel suo voto era scomparso. Nei giorni precedenti, a chi gli aveva chiesto consiglio sul da farsi, il principe di Salina aveva consigliato di votare per l’annessione, non parendogli si potesse fare altrimenti «di fronte alla necessità storica, come anche in considerazione dei guai nei quali quelle umili persone sarebbero forse capitate quando il loro atteggiamento negativo fosse stato scoperto».

Anche se Salina pensava che con quella manipolazione fosse stata strangolata in sul nascere del nuovo regno la buona fede – uno sguardo di lungo periodo il suo, ma si tenga presente che Tomasi di Lampedusa ha scritto Il gattopardo nella seconda metà del Novecento – aveva pienamente ragione: i plebisciti erano rituali collettivi la cui novità a quei tempi non era certo la manifestazione individuale di volontà. Contava piuttosto l’eguaglianza nei soggetti, il fatto che in quel computo di voti, veritiero o truffaldino che fosse, il voto del principe e quello di don Ciccio valessero egualmente. Solo per un giorno, naturalmente, poi tutto sarebbe tornato al suo posto.

C’era un che di giacobino in quell’idea. La pratica di simili plebisciti era una novità introdotta dai rivoluzionari francesi per annettersi nuove province. Vero segnacolo dei tempi nuovi, la pratica piacque. L’ha fatta sua Napoleone quando si era trattato non di annettersi province, ma anche di ratificare una Costituzione: redatta a suo piacimento, era però voluta dal popolo. La mossa è stata ripetuta da Napoleone il piccolo, il nipote. E così da allora e sempre. Imperatori, despoti e capipopolo amano essere votati dal popolo. Beninteso in regime di suffragio universale egualitario.

Come manifestazione corale di un popolo di eguali, il plebiscito si sovrappone all’antica pratica di eleggere, di scegliere e nominare, pratica della quale segue alcuni rituali. Anche l’eleggere del resto ha tratti di coralità, segnati per esempio dalla lunga sopravvivenza del voto palese, dell’acclamazione. Ma tra Otto e Novecento questa coralità si è gradualmente misurata con gli assunti dell’individualismo e dello stato di diritto. Da qui l’evolversi delle mille procedure per rendere anonimo e segreto il voto, fino alle schede statali prestampate, le cabine elettorali, la matita copiativa, e così via.

Elezioni plebiscito

In effetti, il giacobinismo rivoluzionario ha complicati intrecci con la modernità, se non con i moderni totalitarismi. Dettagliate procedure elettorali garantiste sono state adottate anche sotto le dittature. Nelle elezioni italiane del 1929 l’elettore era chiamato a esprimersi per un sì o per un no a una lista di deputati designati dal Gran consiglio del fascismo. Una elezione plebiscito appunto, con un complicato sistema di due schede, una tricolore per il sì, una bianca per il no. Anche se facilmente aggirabile, occasione di ogni sorta di intimidazioni e controlli, fu applicata una complessa procedura intesa a garantire l’anonimato. Norme simili si trovano in tutte le elezioni.

La Costituzione sovietica del 1936 stabilisce che «le elezioni dei deputati sono a suffragio uguale» (articolo 136) e avvengono «a scrutinio segreto» (articolo 140). Così è avvenuto nel referendum russo in Ucraina, dove la televisione ha esibito il consueto rituale occidentale: urne, cabine con siparietti, addirittura compiacenti “osservatori internazionali”.

Quanto ai risultati, nelle elezioni italiane del 1929, con una affluenza dell’89,45 per cento degli aventi diritto e percentuali più alte nel Mezzogiorno e nelle campagne (è questo il basso astensionismo che ci auguriamo?), vi sono stati il 98,33 per cento di Sì, con casi del 100 per cento, e l’1,57 per cento di no. Percentuali simili, come si vede, a quelle dei plebisciti italiani, dell’Anschluss o del voto ucraino.

Nelle repubbliche separatiste il popolo deve aver cambiato idea: nel referendum del 1991, tra l’85 per cento e il 98 per cento degli ucraini (ma il 54 per cento in Crimea) avevano votato per l’indipendenza. Forse a far cambiare idea ha contribuito il fatto evidente che le schede russe sono aperte, con voto palese. Una bella gaffe, sfuggita ai cosiddetti osservatori internazionali.

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