Il 12 agosto 1987 Ronald Reagan e Michail Gorbaciov si sedettero uno accanto all’altro nella “East Room” della Casa bianca e sottoscrissero uno dei provvedimenti che più hanno contribuito a porre fine alla Guerra fredda, lo Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty (Inf). In forza di quel trattato Washington e Mosca smantellarono le batterie terrestri di missili con gittata tra 500 e 5.500 chilometri.

Gli Stati Uniti si sono ritirati dall’Inf nel 2019, e ora - dopo 37 anni - installeranno nuovamente nel Pacifico, in funzione anti-Cina, razzi capaci di trasportare testate atomiche, in quella che, mutatis mutandis, assomiglia ogni giorno di più a una riedizione del conflitto che tra il 1947 e il 1989 contrappose il campo socialista ai paesi capitalisti.

A rivelare l’arrivo entro la fine dell’anno dei missili da crociera Tomahawk e degli intercettori SM-6 è stato qualche giorno fa il comandante dell’esercito statunitense nel Pacifico, generale Charles Flynn, in un’intervista all’agenzia sudcoreana Yonhap. I media giapponesi hanno aggiunto che saranno controllati dal nuovo sistema Typhon, che verrà installato a Guam, l’isola-base militare che dalla sua posizione strategica permetterebbe agli Stati Uniti di colpire la Cina e di proteggere con uno scudo anti-aereo il Giappone, le Filippine, Taiwan e Corea del Sud.

Proprio da Guam il 17 marzo scorso è decollato il bombardiere B-52 che ha testato per la prima volta nel Pacifico un missile ipersonico AGM-183A. Secondo i documenti del Pentagono si tratta di un’arma «destinata ad attaccare obiettivi terrestri di alto valore, sensibili al fattore tempo». Gli analisti militari non hanno dubbi: quella sperimentazione è il segnale che Washington è determinata a rafforzare la sua postura strategica nel Pacifico. La reazione di Pechino non si è fatta attendere: «Esortiamo gli Stati Uniti a rispettare sinceramente le preoccupazioni di sicurezza degli altri paesi e a smettere di minare la pace e la stabilità regionale», ha protestato il ministero degli esteri.

Stretti tra Trump e Pechino

Ricevendo giovedì scorso - in un inedito summit trilaterale Usa-Giappone-Filippine - il premier Fumio Kishida e il presidente Ferdinand Marcos Jr. in quella stessa “East Room” nella quale Reagan e Gorbaciov firmarono lo Inf, Joe Biden ha sottolineato che «l’impegno degli Stati Uniti per la difesa del Giappone e delle Filippine è a prova di bomba».

Ma “America First” è uno slogan che continua a inquietare gli alleati asiatici degli Stati Uniti che hanno contenziosi territoriali con la Cina. Rivolgendosi in inglese al Congresso riunito in seduta congiunta per dargli il benvenuto, Kishida ha ammesso che «mentre ci incontriamo qui oggi, noto una corrente sotterranea di insicurezza tra alcuni americani su quale dovrebbe essere il loro ruolo nel mondo». Secondo il presidente del partito liberal democratico - alle prese con il più grave scandalo di corruzione degli ultimi decenni in Giappone - la leadership di Washington è indispensabile e l’alleanza con Tokyo va rafforzata perché «la politica estera della Cina e la sua condotta militare rappresentano una sfida strategica senza precedenti, la più grande non solo per la pace e la sicurezza del Giappone, ma per la pace e la stabilità della comunità internazionale in generale». Interrotto ripetutamente dagli applausi dei parlamentari Usa, Kishida ha sostenuto che «l’Asia orientale può diventare domani come l’Ucraina oggi».

Biden ha proclamato una “nuova era di collaborazione” con i due arcipelaghi, alleati ancora più fedeli dopo che Kishida ha proseguito la demolizione - intrapresa dall’ex premier, Shinzo Abe - della tradizionale politica pacifista del Giappone postbellico e Marcos ha cancellato l’equidistanza tra Pechino e Washington praticata dal suo predecessore, Rodrigo Duterte, avendo già concesso agli Usa l’utilizzo di nove nuove basi militari dopo l’entrata in vigore, il 1° febbraio scorso, dello Enhanced Defense Cooperation Agreement.

Mini-Nato asiatica?

Oltre a una serie di importanti accordi economici (gli azionisti hanno dato il via libera all’acquisizione di U.S. Steel da parte di Nippon Steel per 14,9 miliardi di dollari), con Tokyo Washington ha avviato quello che Biden ha definito «l’aggiornamento più significativo da quando (nel 1951, ndr) è stata istituita la nostra alleanza», diventata parte di quel Quad (che include anche Australia e India) di cui Biden negli ultimi mesi ha ricevuto tutti i leader.

Il presidente Usa ha spiegato che con il Giappone (oltre che con l’Australia) gli Stati Uniti ammoderneranno le strutture di comando e controllo e aumenteranno l’interoperabilità degli eserciti, e creeranno una rete di difesa missilistica comune. Washington si aspetta dal Giappone (che nell’anno fiscale appena cominciato spenderà per la difesa la cifra più alta di sempre, pari a 55,9 miliardi di dollari) uno sforzo maggiore nella produzione di armamenti, l’aumento delle spese militari fino al 2 per cento del prodotto interno lordo entro il 2027 e l’acquisto di missili Tomahawk made in Usa.

Inoltre Biden ha annunciato che i membri della più potente partnership di difesa incentrata sul Pacifico, l’Aukus (Australia, Regno Unito, Stati Uniti), «stanno valutando come il Giappone potrà unirsi al nostro lavoro» (si parla di un ingresso nel cosiddetto “pillar 2” anche di Corea del Sud, Canada e Nuova Zelanda). Biden ha ripetuto che si tratta di un’alleanza “puramente difensiva” e “non rivolta contro terze parti”. Tuttavia è chiaro che se il Giappone finisse in qualche modo per aderirvi, ciò sarebbe percepito dalla leadership di Pechino come una minaccia diretta alla Cina, innescando un aumento delle attività dell’Esercito popolare di liberazione nell’area.

Tensione alle stelle

Il vertice a tre è stato l’occasione per mandare un duro messaggio a Pechino sul Mar cinese meridionale. «Qualsiasi attacco contro navi aeree o forze armate filippine nel Mar Cinese Meridionale invocherebbe il nostro trattato di mutua difesa», ha avvertito Biden. «Esprimiamo le nostre serie preoccupazioni per il comportamento pericoloso e aggressivo della Repubblica popolare cinese nel Mar Cinese meridionale. Siamo anche preoccupati per la militarizzazione delle aree contese e per le rivendicazioni marittime illegali nel Mar Cinese meridionale», si legge nel comunicato congiunto.

In questo mare strategico per le sue riserve di idrocarburi, come serbatoio di pesca per le popolazioni che vi si affacciano, e sul quale viaggiano ogni anno merci per oltre 3.000 miliardi di dollari, è un crescendo di scaramucce. Il 5 marzo scorso, la guardia costiera cinese si è scontrata con quella filippina. E il 23 marzo, i cannoni ad acqua cinesi hanno danneggiato una nave da rifornimento filippina (e ferito alcuni membri dell’equipaggio) diretta verso la Sierra Madre, la nave da guerra arrugginita incagliata dal governo di Manila nel 1999 nel Second Thomas Shoal per rafforzare le rivendicazioni di sovranità filippine sull’arcipelago delle Spratly. Per evitare il ripetersi di simili incedenti il Marine Electric Propulsion Device Research Institute di Wuhan sta mettendo a punto nuovi cannoni ad acqua guidati dall’intelligenza artificiale, più potenti e precisi.

La Cina rivendica come suo per l’80 per cento del Mar cinese meridionale e pretende di risolvere in ambito bilaterale e con l’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico (Asean) i contenziosi territoriali con i suoi vicini asiatici.

Il vertice di giovedì scorso fa seguito ai pattugliamenti militari congiunti di Stati Uniti, Giappone, Australia e Filippine nel Mar Cinese Meridionale che la domenica precedente avevano coinvolto sei navi da guerra e quattro aerei. Quello stesso giorno la Cina aveva effettuato un suo pattugliamento, denunciando «sforzi stranieri per sabotare la situazione». Il summit alla Casa bianca promette di essere un “game changer”, garantendo un sostegno più robusto di Washington e Tokyo a Manila. Per la Cina però sta nascendo una “mini-Nato asiatica” che minaccia i suoi interessi e la sua sovranità.

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