È bastata un’indiscrezione, riportata dai media asiatici, sulla possibile visita di Nancy Pelosi a Taiwan per scatenare l’ira della Cina. La visita non è mai stata confermata ufficialmente e comunque è stata semmai annullato visto che ieri Pelosi è risultata positiva al Covid.

La sua sarebbe stata la replica di un azzardo compiuto finora solo da un altro speaker della Camera dei rappresentanti. Nel 1997 Newt Gingrich fece infuriare Pechino andando a stringere la mano a Lee Teng-hui, il presidente che due anni prima – col suo discorso alla Cornell University sulla “Esperienza democratica di Taiwan” – aveva contribuito a innescare la terza crisi dello Stretto.

A sedare i cannoni cinesi allora fu sufficiente l’invio, nel 1996, delle portaerei “Nimitz” e “Independence” ordinato da Bill Clinton. Ma quello guidato da Jiang Zemin era un paese militarmente debole e conciliante con l’occidente, con cui stava negoziando l’ingresso nell’organizzazione mondiale nel commercio.

La reazione cinese

Poco più di vent’anni dopo solo il Covid evita per il momento l’incidente diplomatico. Ieri Zhao Lijian ha dichiarato che la Cina ha espresso «rimostranze solenni» a Washington, esortandola ad «annullare immediatamente» il viaggio.

«Se gli Stati Uniti andranno avanti per la propria strada – ha aggiunto il portavoce del ministero degli Esteri – adotteremo misure ferme ed energiche per difendere la nostra sovranità nazionale e integrità territoriale e gli Usa dovranno essere considerati pienamente responsabili di tutte le conseguenze».

Zhao ha protestato anche per l’annuncio da parte dell’alleanza militare Aukus (Australia, Regno unito, Stati uniti), con focus sul Pacifico, dell’avvio di una collaborazione sui missili ipersonici e anti ipersonici per contrastare i progressi cinesi in questi sistemi d’armamento.

Mentre il segretario al Tesoro, Janet Yellen, ha avvertito che, se la Cina agirà in maniera aggressiva contro Taiwan, l’amministrazione Biden è pronta a utilizzare tutti i suoi strumenti sanzionatori, «come fatto in altre situazioni» (un chiaro riferimento al conflitto in Ucraina, ndr).

I media governativi hanno pubblicato articoli infuocati corredati dalle foto dei bombardieri e dei caccia dell’esercito popolare di liberazione che ormai quotidianamente entrano nelle zone d’identificazione di difesa aerea (Adiz) di Taiwan, mentre i leoni da tastiera si scatenavano sui social con inviti espliciti a riprendersi l’isola dove nel 1949 si rifugiarono i nazionalisti sconfitti dai comunisti nella guerra civile.

Tuttavia è probabile che, al di là della retorica incandescente, la risposta a quella che la leadership di Pechino considera una grave provocazione sarà ponderata e non militare. Il mese scorso il presidente cinese, Xi Jinping, aveva comunicato al suo omologo statunitense, Joe Biden, che «la cattiva gestione della questione di Taiwan può avere un impatto dirompente sui legami bilaterali».

Cina vs Taiwan

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La Repubblica popolare cinese non ammette che il governo di fatto indipendente di Taiwan (considerata una provincia ribelle da “riunire” alla madrepatria) abbia, come uno stato sovrano, relazioni ufficiali con l’estero.

Se, dopo la guarigione, Pelosi andrà davvero ai Taipei, sarà uno stress test, forse non inatteso, che creerà apprensione nella leadership cinese, già alle prese con l’esplosione del focolaio di Covid-19 a Shanghai, col brusco rallentamento dell’economia e con la difficoltà di difendere la sua partnership strategica con la Russia presentandosi alla comunità internazionale come “neutrale” sul conflitto in Ucraina.

Il tutto quando mancano pochi mesi al XX congresso del partito, un evento che Xi Jinping ha preparato per dieci anni, collezionando una serie di titoli e incarichi per assicurarsi un inedito terzo mandato a guidare il paese. Rappresenta comunque un passaggio delicato, problematico se affrontato nel bel mezzo di quattro crisi concomitanti.

Più in generale Xi e compagni – che hanno inserito la “riunificazione” di Taiwan nel loro disegno di “grande rinascita della nazione cinese” – si trovano di fronte a un dilemma strategico: come completare il loro progetto nazionalista dopo che gli Stati Uniti hanno incorporato la difesa della giovane democrazia taiwanese nella nuova strategia indo-pacifica varata nel febbraio scorso dall’amministrazione Biden. Washington ha messo nero su bianco che si ritiene tuttora vincolata a tutti gli impegni presi in passato: il Taiwan relations act; la politica “Una sola Cina”; i tre comunicati congiunti; e le sei rassicurazioni.

Nazionalismi contrapposti 

Chinese President Xi Jinping applauds during the closing session of China's National People's Congress (NPC) at the Great Hall of the People in Beijing, Friday, March 11, 2022. (AP Photo/Sam McNeil)

Eppure – parallelamente al massiccio riarmo della Cina di Xi – negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno schiacciato sull’acceleratore delle forniture militari a Taipei. Il dipartimento di stato ha appena approvato l’invio di missili Patriot per 95 milioni di dollari.

L’amministrazione Biden aveva già approvato lo scorso agosto un accordo da 750 milioni di dollari per la fornitura a Taiwan di 40 obici semoventi Paladin M109A6. E nei mesi scorsi la presidente taiwanese, Tsai Ing-wen, aveva rivelato la presenza sull’isola di istruttori militari e forze speciali statunitensi. Non soltanto Taiwan è sempre più inserita nel dispositivo militare Usa nel Pacifico, ma anche la sua economia si sta legando maggiormente a quella americana.

Ad esempio, mentre sull’isola la magistratura dà la caccia alle “spie economiche” cinesi che reclutano esperti taiwanesi di microchip, il colosso taiwanese Tsmc sta costruendo in Arizona la sua fabbrica di semiconduttori più avanzati al di fuori di quelli prodotti negli stabilimenti dell’Isola. E nello stesso tempo – sempre nell’ambito dell’elettronica – Taiwan sta applicando scrupolosamente le sanzioni contro la Russia.

Dalle due sponde dello stretto si fronteggiano pericolosamente due nazionalismi: quello del sogno di una Cina “ricca e forte” che si riscatta definitivamente dal lungo secolo dell’umiliazione coloniale (1839-1949) e quello taiwanese che – dall’elezione di Tsai nel 2016 – rifiuta l’ambigua idea di “Una sola Cina” che poteva rimandare sine die lo strappo della “riunificazione” o della dichiarazione d’indipendenza, ed è alimentato dai giovani, fieri di un’identità culturale e politica vissuta come “contrapposta” a quella del dirimpettaio autoritario.

Negli ultimi anni Taiwan ha compiuto piccoli passi verso l’indipendenza e nel dicembre scorso è stata invitata al forum sulla democrazia organizzato da Biden.

Ma la strategia degli Stati Uniti – la potenza tuttora egemone nel Pacifico – sembra tornata quella del 1950, quando (dopo che per ordine dei sovietici in Corea centinaia di migliaia di “volontari” cinesi avevano contribuito a ricacciare sudcoreani e statunitensi al di là del 38° parallelo) Washington s’impegnò a consolidare militarmente ed economicamente il regime di Chiang Kai-shek.

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