Paolo Roi, dipendente pubblico di 62 anni, non ha votato ai cinque referendum sulla giustizia. Anche se abita a Verona e domenica scorsa si è recato al seggio per scegliere il nuovo sindaco della città, sui cinque quesiti relativi all’ordinamento giudiziario ha preferito non esprimersi. 

Lui, che ha votato al suo primo referendum nel 1978, dice che nonostante abbia letto tutto ciò che poteva sui giornali e ne abbi discusso con amici avvocati, non se l’è sentita di esprimersi: «Nonostante tutto non ero in grado di comprendere appieno gli effetti del mio giudizio».

Per Roi è stato questo il problema con l’ultimo referendum. I cinque quesiti riguardavano questioni complesse, come la riforma della legge Severino sull’incandidabilità e la separazione delle carriere dei magistrati. E molti altri italiani, apparentemente, si sono sentiti nel suo stesso modo. Con un’affluenza leggermente inferiore al 21 per cento, i referendum di domenica sono stati i meno votati nella storia della Repubblica. 

Il risultato non è una sorpresa, ma ugualmente sembra essere la sintesi perfetta di qualcosa che era in gestazione da tempo. Introdotti negli anni Settanta, i referendum abrogativi sono stati trasformati in uno strumento di lotta politica extra parlamentare soprattutto grazie al piccolo e battagliero Partito radicale, che ne ha promossi oltre cento.

Ma dopo quasi mezzo secolo di mobilitazioni referendarie, che hanno portato a storiche vittorie, questo strumento sembra ormai logoro. Con l’eccezione dei referendum sull’acqua e sul nucleare del 2011, è dal 1997 che i referendum mancano sistematicamente il quorum.

Arrivano i referendum

L’Italia repubblicana è nata il 2 giugno del 1946 con un referendum e la possibilità che i cittadini siano chiamati a esprimersi direttamente è prevista fin dalla Costituzione del 1948.

Non era scontato. In Europa non sono molti i paesi dove è prevista, all’interno della legge fondamentale dello stato, la possibilità di interpellare direttamente gli elettori su questioni specifiche.

Lo scetticismo, o l’entusiasmo, nei confronti del referendum si possono far risalire fino agli albori dei teorici dello stato moderno, con i conservatori, rappresentati dal filosofo francese Montesquieu, che lo ritengono una pericolosa deviazione dal sacro principio della rappresentanza, e i progressisti, come Rousseu, per cui è invece la più alta forma di espressione della volontà popolare.

Nell’Europa di oggi, solo l’Italia (a partire dagli anni Settanta) e la Svizzera fanno un utilizzo così massiccio delle consultazioni referendarie che negli altri paesi sono invece eventi piuttosto rari.

Dopo l’approvazione della Costituzione nel 1948 i referendum abrogativi sono rimasti lettera morta fino al 1974 quando il governo di centrosinistra ha raggiunto un compromesso: veniva approvata la legge sul divorzio ma veniva fornita anche la possibilità di abrogarlo tramite voto popolare.

Il referendum, come noto, ha visto la sconfitta del fronte abolizionista. «Fu un evento epico per la storia italiana», dice Marco Boato, ex parlamentare e all’epoca attivista del fronte del “No” e membro del movimento di estrema sinistra Lotta continua.

Oltre che del divorzio, è stata una vittoria dell’idea stessa della consultazione referendaria. «Anche se a promuoverlo per la prima volta erano state forze assai retrive sui temi dei diritti civili – dice Boato – Si creò una opinione molto favorevole all’utilizzo, fino ad allora inedito, di questo fondamentale strumento di democrazia diretta».

I radicali

Queste potenzialità non sfuggite al Partito radicale all’epoca guidato da Marco Pannella. Alle elezioni del 1976, anche grazie alla visibilità ottenuta grazie alla battaglia per il “Sì” al referendum sul divorzio, il partito ha raccolto poco meno di 400mila voti ed riuscito a eleggere i primi deputati in quasi vent’anni di attività.

Nonostante le sue piccole dimensioni, il partito aveva grandi ambizioni. Il progetto politico di Pannella e dei radicali, ha riassunto lo studioso Pier Vincenzo Uleri, era quello di imporre all’Italia un sistema di alternanza bipolare come nelle grandi democrazie anglosassoni, considerate più moderne.

Il metodo scelto per farlo è stato quello dei referendum: spezzare le alleanza considerate innaturali introducendo nel dibattito pubblico grandi temi divisivi. I radicali sono diventati così il “partito dei referendum”.

Tra la fine degli anni Settanta e gli anni Novanta i Radicali, da soli, hanno presentato oltre 110 referendum, di cui 43 sono stati accettati. A questi vanno aggiunti gli ultimi cinque quesiti, sostenuti dal Partito radicale e alla Lega di Matteo Salvini, ma richiesti da nove consigli regionali .

In tutto in Italia si sono tenuti 72 referendum abrogativi, un referendum istituzionale (nel 1946), uno di indirizzo (nel 1989 ma era solo consultivo) e quattro costituzionali. Un numero senza paragoni negli altri grandi paesi europei dove, dal dopoguerra a oggi, i referendum nazionali si contano sulle dita di una mano.

© LaPresse Archivio storico Roma agosto 1970 Nella foto: il politico Marco Pannella inizia il digiuno per il referendum pro divorzio

L’inflazione

Pannella e i Radicali hanno dovuto fare i conti con due problemi. Il primo è stato il conservatorismo della Corte costituzionale, demandata a verificare l’ammissibilità dei quesiti referendari. Il secondo: assicurarsi di portare a votare un sufficiente numero di persone così da raggiungere il quorum del 50 per cento degli aventi diritto. 

È nata così la strategia dei “pacchetti” che prevedeva di mettere insieme il più alto numero di quesiti referendari possibile, così da ottimizzare la raccolta di firme, aumentare le possibilità che uno o più quesiti passassero il vaglio della Corte e, usando tematiche diverse che richiamavano diversi tipi di elettorato, favorire il raggiungimento del quorum.

Lo zenit di questa fase è stato raggiunto nel 1995, quando agli italiani sono stati sottoposti dodici quesiti diversi che andavano dagli spot pubblicitari in televisione, alla gestione delle frequenze televisive, passando per le trattenute sindacali e gli orari dei negozi.  

Non sono mancati i critici di questa strategia, come lo stesso Boato, che dopo essere entrato nei Radicali nel 1978, ha lascia il partito nel 1981, in dissenso con la leadership del carismatico leader Pannella e con il “pacchetto” referendario di quell’anno, che aveva segnato la sconfitta della proposta radicale per ampliare il diritto all’aborto e quella dei conservatori che volevano cancellarlo.

La decadenza

Un terzo problema dei referendum si è manifestato sempre più spesso in anni recenti. I referendum popolari possono solo abrogare leggi o parti di legge. Per ottenere i risultati desiderati, quindi, sempre più spesso i promotori si sono lanciati in vere opere di ingegneria legislativa, in cui la modifica di alcune parole, l’eliminazione di qualche frase, può portare per vie traverse a una specie di produzione di “nuove norme”. I quesiti si sono fatti sempre più complessi e specifici, in una marcia che ha portato l’Italia ad allontanarsi sempre più dal canonico utilizzo dei referendum, per decidere con un Sì o un No su questioni chiaramente divisive.

Il referendum di domenica ha avuto l’effetto di accelerare le discussioni in corso sull’opportunità di riformare lo strumento, anche in virtù del suo glorioso passato. «I referendum, nonostante tutto, hanno dato una buona prova. Non dobbiamo disperdere ma rilanciare questa esperienza», ha scritto Andrea Morrone, professore di diritto Costituzionale all’Università di Bologna e autore di La Repubblica dei referendum.

Ma quali sono le concrete possibilità di riforma? Se alcuni partiti come i Radicali hanno visto nel referendum uno strumento per uscire da un sistema consociativo e bloccato, per gli eredi di Montesquieu il referendum rimane una pericolosa china che porta verso la dittatura della maggioranza. Futuri referendum sull’adesione all’euro o alla Nato, che con le attuali leggi non si potrebbero svolgere, sono ancora oggi l’incubo principale per una parte non piccola del ceto politico.

Dal loro punto di vista, l’attuale referendum abrogativo, inflazionato, azzoppato e consunto dall’eccessivo utilizzo di questi anni, è ormai addomesticato e non più pericoloso. Chi lo ritiene un mezzo poco utile deve fare poco altro oltre ad assicurarsi che resti così. 

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