Si chiama Frances Haugen, è la sconosciuta del giorno prima che adesso attacca frontalmente Mark Zuckerberg guardando dritto in una telecamera ed è anche l’ultima versione di whistleblower, cioè di sentinella civica. Non è come Edward Snowden, antesignano pop della categoria, che dopo aver rivelato la sorveglianza di massa è tuttora in esilio per sfuggire alle rappresaglie del governo. Dopo aver passato documenti e carte imbarazzanti per Facebook ai giornali d’America, Haugen ha confezionato un sito patinato e la newsletter correlata. Ha aperto il suo profilo Twitter, ha coniato un paio di slogan – «Possiamo avere dei social media che tirino fuori il meglio dell’umanità!» – e si è presentata agli spettatori di Cbs per spiegare le sue ragioni. La ex dipendente di big tech può fare di sé un personaggio, esibire la propria identità, intervenire in prima persona sui media, perché sa di avere le spalle non troppo scoperte, per vari motivi. Il primo di tutti è che l’imperatore socialmediatico è d’intralcio a molti, a cominciare da alcuni azionisti: fra questi, ben due gruppi hanno avviato iniziative legali contro Zuckerberg, come si è saputo a fine settembre. E stando alle rivelazioni recenti viene fuori che pure alcuni suoi sottoposti ormai maltollerano il capo.

Ora arriva Haugen e a volto scoperto denuncia un sistema che invece di arginare odio e disinformazione si nutre della rabbia collettiva perché quella rabbia traina profitti per la piattaforma. «I profitti vengono prima della sicurezza», dice lei, che oggi testimonierà davanti al Senato degli Stati Uniti: la sua speranza dichiarata è che l’amministrazione Usa imponga a Facebook regole più stringenti.

Il personaggio e la svolta

La nemesi di Zuckerberg ha qualcosa in comune con lui, almeno all’inizio della biografia. Anche Haugen, proprio come il magnate di Facebook, studia a Harvard. Lei nasce in Iowa da due professori, la madre a un certo punto lascia la carriera accademica per diventare prete episcopale e diventa un punto di riferimento, una consigliera, quando la figlia vive i primi dissidi con Facebook. Nella narrazione che la whistleblower dà di sé, la sua storia è quella di una «rule-follower», di una ragazza coscienziosa e rispettosa delle regole. Dopo aver studiato ingegneria informatica, comincia a lavorare per le grandi della Silicon Valley: a Pinterest e a Google prende dimestichezza con gli algoritmi. Google stessa le finanzia il master in business administration a Harvard. Quando dieci anni fa, a 27 anni, Haugen ritorna in azienda, capita qualcosa che dirotta il suo percorso. Non solo una malattia autoimmune, che le toglie ogni energia, e poi una trombosi, che la trascina in terapia intensiva; ma pure un incontro, che si rivelerà cruciale. Si tratta di un ragazzo che aiuta Haugen nel periodo della riabilitazione, fino a diventare suo grande amico; ma poi tra i due avviene un allontanamento, perché lui finisce ossessionato da teorie della cospirazione. «Una cosa è studiarla, la disinformazione, una cosa è perdere una persona cara proprio per questo». Quando tre anni fa Frances Haugen si ritrova a valutare un’offerta di lavoro di Facebook, accetta proprio perché la missione – in teoria – è arginare la disinformazione. Estate 2019: comincia l’impiego nel Civic Integrity team, una squadra creata dentro l’azienda per studiare se la piattaforma viene usata per diffondere notizie false e se può essere utilizzata a fini di manipolazione politica. Belle intenzioni, ma «eravamo troppo pochi, mi chiesi come mai un’azienda come Facebook non dotasse di più personale questo team»: 200 persone per affrontare il tema social e democrazia. Dicembre 2020: Samidh Chakrabarti, che aveva creato e che guidava il team, ne annuncia lo scioglimento. E al contempo Haugen comincia a maturare il suo distacco. Ad aprile comunica all’azienda il suo addio, ma per qualche settimana ancora ha accesso ai documenti e alle ricerche prodotte all’interno dell’azienda; diventeranno i “leak”, le soffiate trasmesse a stampa e a enti regolatori Usa. Maggio 2021: Haugen deposita il suo ultimo messaggio ai colleghi. «Non odio Facebook», dice. «La amo, e voglio salvarla».

Rivelazioni e imbarazzi

Dalle indiscrezioni che la ex dipendente fa trapelare, e dall’interlocuzione con altri sottoposti di Zuckerberg, il Wall Street Journal è riuscito a ricavare una serie di rivelazioni. Anzitutto, da quei documenti si deduce che le regole non sono uguali per tutti: una cerchia di politici e celebrità ha potuto usufruire di un regime più lasco per quel che riguarda il controllo dei contenuti. Poi, i dipendenti lamentavano una lotta troppo debole a contenuti riguardanti trafficanti di droga e di esseri umani. Per non parlare del fatto che l’azienda sapeva, dalle sue ricerche, di effetti negativi di Instagram sugli adolescenti; «dell’acuirsi di disordini alimentari e depressione», dice Haugen, che nell’intervista andata in onda domenica su Cbs dettaglia alcuni aspetti. Spiega che «più si producono “contenuti coinvolgenti”, che fanno arrabbiare o istigano sentimenti negativi, più si trattiene una persona dentro la piattaforma, e più si fanno soldi»; il che ha portato l’azienda, dice lei, a «preferire i profitti alla sicurezza». Ma come, Zuckerberg non stava conducendo una lotta alla disinformazione e all’odio? «Facile dire così, quando poi è Facebook a valutarsi da sola, a produrre dati e statistiche su di sé». Quanto agli effetti sul sistema democratico, «gli stessi partiti politici hanno lamentato all’azienda che, per come è congegnata la piattaforma, se non pubblicano contenuto divisivo, polarizzante, arrabbiato, non riescono ad avere visibilità». La whistleblower ha presentato almeno otto reclami agli enti regolatori Usa, ha interloquito con parlamentari, si dice disponibile a dare testimonianza anche alle authority Ue. Il Senato oggi le apre le porte. Quello che Haugen va a dire in tv, e cioè che Facebook è un impero ma senza equilibrio di poteri, è un problema che l’amministrazione Usa già conosce. Ma come in ogni impero della storia, la crisi che lo incrina comincia da dentro.

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