Ci sono stati momenti nella storia dell’umanità in cui si ha avuto la sensazione di star vivendo un cambiamento epocale, qualcosa che avrebbe modificato per sempre il modo in cui siamo abituati a vivere. In questi casi, di fronte alle enormi potenzialità, è sempre stato attuale il dibattito filosofico anche sui rischi peggiori. La diffusione incontrastata dell’intelligenza artificiale non è ovviamente un’eccezione e fra molti aspetti, più o meno distopici, ce n’è uno particolarmente rilevante: quanto si modificherà il mondo del lavoro? E soprattutto: quali professioni scompariranno, sostituite inevitabilmente dagli algoritmi?

Agli scenari più apocalittici, si accompagna anche una visione più ottimista, che però in genere va di pari passo alla richiesta di non subire l’innovazione, ma di accompagnarla con nuove regole e investimenti. A questa scuola sembra appartenere Francesco Rotondi, giuslavorista, naming partner dello studio LabLaw e consigliere del Cnel. È fra i curatori del libro Il lavoro non sarà mai più come prima, edito dal Gruppo24Ore.

Avvocato Rotondi, Mario Draghi nel suo rapporto sulla competitività ha sottolineato quanto l’Unione europea sia in ritardo nell’innovazione e nel campo dell’intelligenza artificiale rispetto a competitor come Stati Uniti e Cina. Fra poco parleremo di problemi legati all’evoluzione tecnologica, ma evidentemente ci sono anche potenzialità che dobbiamo essere in grado di cogliere. Che ne pensa?
Sì, come al solito Draghi ha un pensiero estremamente lucido e puntuale e ha superato a piè pari questioni che ci poniamo dal punto di vista metodologico, e che riguardano più la politica e la sociologia. Al di là di tutto, il mondo va avanti e bisogna fare una scelta: o stai dentro o stai fuori. Se decidi di restare all’esterno e lasciare agli altri il progresso, ci saranno inevitabilmente delle conseguenze. Se stai dentro, allora devi iniziare a correre, puntare davvero sull’innovazione, investire nella formazione, permettere alle organizzazioni di fare progresso. E riuscire così ad arrivare a un miglioramento della produttività e della redditività, senza che questo amplifichi le disuguaglianze.

E in Europa si fa poco?
Ha ragione Draghi, siamo in ritardo. Dopo la Seconda guerra mondiale eravamo fra i protagonisti dell’innovazione tecnologica, anche grazie all’aiuto degli Stati Uniti. Ultimamente sembra che questa capacità si sia persa.

Intanto la tecnologia avanza e riguarda aspetti sempre più concreti della nostra vita. Parlando di lavoro, ci imbattiamo subito nell’intelligenza artificiale, ancora prima di essere assunti. Sempre più aziende utilizzano gli algoritmi per scremare le candidature ed esistono guide online che insegnano a scrivere un curriculum che possa piacere agli algoritmi. Forse il primo pericolo è questo: il singolo lavoratore deve imparare a formarsi da solo?
Noi tendiamo a pensare che la vita sia fatta di compartimenti stagni, ma non è così. Ogni aspetto della nostra vita è connesso all’altro ed è inevitabile che ogni cittadino, prima che ogni singolo lavoratore, possa trarre vantaggio dalla capacità di stare al passo con i tempi. Ma dobbiamo anche stare attenti a quelle che sono le esigenze specifiche del mondo del lavoro: non si può delegare tutto al singolo lavoratore. Vanno fatti degli investimenti come società, a partire dalla scuola. Non basta essere nativi digitali per avere un vantaggio nel mercato del lavoro.

Ma Lei condivide il pessimismo di chi ritiene che l’intelligenza artificiale possa avere un impatto catastrofico sull’occupazione?
Assolutamente no. Ernst Jünger lo scriveva già nel 1956: è un fatto che ci sia una connessione intima fra progresso e paura, è un fattore umano. Ma intorno all’innovazione si sta costruendo una narrativa che non mi pare abbia fondamento. È vero che stiamo assistendo a un cambiamento, ma quello che dobbiamo fare è affrontarlo, senza subirlo. Ogni innovazione comporta dei rischi, che devono essere affrontati mettendo da parte la pigrizia mentale. Ma la narrazione apocalittica mi sembra ideologica.

Si discute molto anche di come l’intelligenza artificiale possa garantire una qualità del lavoro migliore, bilanciando due aspetti che in passato erano spesso visti in contrasto: da una parte il tema della produttività (dal punto di vista dell’imprenditore) e dall’altra l’esigenza di avere più tempo per vivere e stare bene, al di là del lavoro (dal punto di vista del dipendente). Che ne pensa?
È sicuramente vero che ci potrà essere un miglioramento della qualità dello svolgimento dell’attività lavorativa, aumentando allo stesso tempo anche la produttività, con un vantaggio potenziale per tutti. E quindi dove sta il problema? Il rischio vero è che il vuoto che si viene a creare non venga utilizzato per favorire il lavoratore, ma riempito con altre incombenze, in un gioco a somma zero. Ma, ancora una volta, il problema non è la tecnologia in sé, ma l’uso che ne faremo come uomini.

E in questo che responsabilità ha il legislatore?
Enormi. Servirebbe una regolamentazione rigida, per esempio delle attività che vengono svolte senza limite di orario o che hanno un impatto diretto nella vita quotidiana. Sto pensando ad esempio all’equivoco che avere la tecnologia a disposizione significhi che una persona debba rimanere sempre connessa e raggiungibile. Ma ogni regolamentazione deve partire da una cultura per il progresso. In questo anche le parti sociali possono avere un ruolo fondamentale, per esempio verificando che l’utilizzo dell’intelligenza artificiale abbia davvero un esito positivo per i lavoratori, senza che questo ostacoli la libera iniziativa degli imprenditori.

Rotondi, facciamo un esperimento. Abbiamo chiesto a ChatGpt di farLe una domanda e questo è il risultato, letterale: «Secondo Lei, esiste un equilibrio possibile tra l’efficienza data dall’intelligenza artificiale e l’importanza dell’empatia e della creatività umana nel mondo del lavoro?».
Io penso che sia possibile, ma lancerei questa provocazione a ChatGpt: il problema vero è come abbiamo trattato finora l’intelligenza umana e la capacità di pensare in modo trasversale all’interno delle organizzazioni imprenditoriali. Prima di pensare a come l’empatia possa migliorare l’intelligenza artificiale, forse dovremmo pensare a come noi umani possiamo valorizzare meglio le nostre qualità.

Questa intervista sarebbe riuscita allo stesso modo se al posto di un giornalista umano ci fosse stata un’intelligenza artificiale?
In un certo senso il risultato sarebbe stato simile, perché la differenza la fa l’intervistato, non l’intervistatore. Un algoritmo sarebbe riuscito a imitare anche la sensibilità umana di chi pone le domande. Ma non sarebbe stata comunque uguale: perché un dialogo è sempre un confronto fra esperienze personali e anche le domande nascono da questo.

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