Quando mi sono iscritta a Facebook ero a scuola e avevo già chiara una cosa: c’era chi era lì per un diario ipertrofico e un po’ ingenuo delle proprie giornate e chi per la ragione opposta, per mimetizzarsi, essere l’occhio voyeuristico che segue la vita altrui.

Io ero lì dopo la partenza della mia migliore amica, direzione Stati Uniti, con la relativa condivisione di balli di fine anno, sorrisi plastici e post con punti esclamativi. Mi mancavano lei e il suo ego.

La storia del perché io potessi seguire la vita della mia amica online è nota: vent’anni fa, il 4 febbraio 2004, ad Harvard, Mark Zuckerberg lanciava quello che fin da allora era conosciuto come The Facebook, network in cui era possibile cercare e trovare compagni di corso, in un percorso iniziato con un prototipo di cui Zuckerberg era lo sviluppatore principale (ma non l’unico) e un boom di studenti iscritti nelle prime 24 ore.

Oggi che delle luci e delle ombre di Facebook – dall’ottobre 2021 confluito in Meta – se ne parla fin dalle origini è difficile riavvolgere il nastro fino ai giorni in cui Facebook era “the thing” tanto da essere citato in testi di canzoni, ispirare libri come The Facebook Effect (David Kirkpatrick, Simon & Schuster, 2010).

«Facebook ha definito una nuova forma di comunicazione che ha modificato tre gradi di coalescenza: il primo è ridurre lo spazio tra online-offline, il secondo contrae le distanze spaziali, il terzo riguarda il confine tra pubblico e privato. E ci ha abituato ad avere una platea virtuale davanti a cui performare», spiega Giovanni Boccia Artieri, professore ordinario di Sociologia della comunicazione e dei media digitali presso l’università di Urbino Carlo Bo.

Nel libro Facebook: l’inchiesta finale (Einaudi, 2021), Cecilia Kang e Sheera Frenkel scrivono: «Facebook pubblicava notizie con un motto: tutte le notizie sui tuoi amici che non sapevi di voler conoscere».

O forse tutte le news che la mia generazione e quella successiva – che ora preferisce migrare altrove, cercare altri canali, più ristretti, di condivisione – non vuole più conoscere.

Nonostante per molti non sia rilevante quello che succede lì, Facebook a vent’anni non è defunto, anzi. Secondo un report di Meta il numero totale degli user è cresciuto del 5 per cento nell’ultimo quadrimestre dello scorso anno.

Sempre nel 2023, il 40 per cento della popolazione mondiale risultava iscritta a Facebook, con un picco di nuovi iscritti in Asia. Qual era la promessa delle origini? Quali le promesse disattese mentre noi non apriamo l’icona blu da mesi o anni?

Goodbye anonimato

Nicknames, pseudonimi, volti anonimi in blog erano state le prime tracce con cui la generazione prima della mia disseminava e faceva perdere le proprie tracce online.

Se oggi sarebbe più difficile trovare la formula per dissolversi, “how to disappear completely”, si deve anche a una consuetudine, quella di essere presenti con un’identità che non è troppo distante dal sé, un ego sempre perfettibile, aderente alla propria faccia e allo stesso tempo estraneo, se si accetta di non credere alla distinzione tra reale e irreale. Questa rivoluzione la dobbiamo perlopiù a Facebook.

«All’inizio la curiosità era esplorare ambienti online con la propria identità, con i pro e contro collaterali. Tra l’eredità di Facebook, ricordiamo, c’è stato anche trasformare la propria identità in un brand», spiega Valentina Tanni, storica dell’arte e curatrice che si interessa del rapporto tra arte e tecnologia, con particolare attenzione alle culture della rete, docente di Digital Art al Politecnico di Milano e di Estetica dei New Media alla Naba di Roma.

«Facebook in qualche modo ha ucciso il nickname, l’anonimato su internet», dice Valerio Bassan, digital strategist, giornalista, media innovation expert, autore della newsletter Ellissi. «A partire da altri social preesistenti, la promessa era quella di creare un nuovo tipo di relazioni digitali. Era un’intuizione giusta, non un’idea completamente originale, già ai tempi questo tipo di relazioni avvenivano nei blog.

Agli inizi su Facebook esistevano nickname ma tutto ciò è durato poco, il nome, cognome e la faccia reali avevano un valore commerciale intuito fin da subito. La pagina di iscrizione riportava: “Iscriviti, è gratis e lo sarà sempre” (ora rimpiazzato da it’s quick and easy”). Facebook monetizza in altri modi e questi altri modi sono la storia di Facebook, forse anche la storia di internet e sono diventati anche qualcosa di distruttivo».

L’economia delle emozioni

La storia (il mito americano di Zuckerberg, le profonde crepe dello stesso mito legate allo scandalo di Cambridge Analytica o alle fake news in concomitanza con le elezioni presidenziali del 2016) è nota. Al pari del tasto “Mi piace”, esportato anche in altri ambienti digitali, che ha iniziato a controllare il nostro impulso emotivo influenzando algoritmi che ripropongono per mimesi contenuti in uno scrolling potenzialmente infinito.

È l’economia delle emozioni, the economy of like, ora ampiamente nota. Quando l’entusiasmo si è polverizzato e abbiamo iniziato a sentire i primi scricchiolii di una piattaforma che viene percepita, ora, poco vitale da Millennials e Gen Z?

«Direi due cose», prosegue Bassan, «sicuramente ci sono stati dei problemi reputazionali sullo sfruttamento improprio dei dati degli utenti e, allo stesso tempo, c’è stata una perdita del focus della piattaforma. Se vogliamo identificare i primi cedimenti, secondo me si possono posizionare attorno al 2015, quando Facebook ha iniziato ad aggiungere funzioni, prima sostanzialmente era un social network puro. Poi ha puntato tanto sul video, in particolar modo in diretta  (precursore, certo, di alcuni trend). Facebook ha avuto l’ambizione di ricalcare una super app dove si sarebbe fatto di tutto, dal pagare la pizza agli amici al dating al vendere oggetti nel marketplace. Ha, secondo me, peccato un po’ di hybris».

Micro-community, sopravvivenza e dada

Facebook ha avviato il suo programma di fact-checking a dicembre 2016 per coinvolgere le organizzazioni di terzi nel valutare e controllare la precisione dei contenuti. «Ci occupiamo dei contenuti virali che diffondono disinformazione, cerchiamo di dare una mano agli utenti a comprendere i rischi delle bufale», mi racconta un collega giornalista che lavora per Open, partner in Italia di Facebook per il fact checking.

C’è qualcosa che resiste sul fondo di una piattaforma che è vista come infarcita di contenuti che generano rumore visivo? I ricordi?

Credo che le mie amicizie di Facebook siano state per me una mappa. Erano le icone di Messenger perennemente online, scambio di libri, link e album che ho citato, anni dopo, in articoli e script di podcast. Cosa rimane oggi delle bacheche che non guardo più? Quello che è meno visibile, recondito, riservato. Come noi, user restii a una condivisione massiccia.

«Facebook è ormai parte dell’idea che ormai abbiamo di internet. L’aspetto che sopravvive nonostante tutto sono i gruppi, hanno una vitalità percepibile, ci sono molti utenti che usano l’account solo per frequentare i gruppi. Tutto ciò segue la tendenza generale che vede le persone privilegiare luoghi più ristretti piuttosto che la condivisione indiscriminata con un networking esteso», spiega Valentina Tanni.

«Esistono community antichissime, di dieci o vent’anni, che non migrano da Facebook per consuetudine». La cosa più creativa mai successa? «Una decina di anni fa», prosegue Tanni, «sono apparse le prime pagine di tipo sperimentale, specchio di un uso diverso della piattaforma, il cosiddetto “weird Facebook” che ancora oggi sopravvive. Pagine o eventi fake con milioni di partecipanti, questo uso un po’ dadaista è stata forse la cosa più artistica mai successa lì dentro».

Crescere e invecchiare in bacheca

Un altro tema prima di Facebook poco indagato è l’accumulo di dati, pezzi di identità passate e desuete di cui ci vorremmo liberare, incastonate in tag che non ci rappresentano più. Come si cresce, si cambia, si invecchia online?

A rispondere è Massimo Mantellini, esperto della rete che si occupa dei temi legati alla cultura digitale, alla politica delle reti, alla privacy, autore del libro Invecchiare al tempo della rete (Einaudi, 2023). «Internet ha avuto la capacità di creare una specie di ammortizzatore, una situazione intermedia nella quale il filtro, il diaframma digitale, consente, a persone che stanno diventando vecchie, cose che in passato non erano possibili.

Detto questo, credo che si invecchi su Facebook come dentro qualunque altro social, all’interno di una serie di relazioni molto varie che negli anni tendono a cancellarsi, a essere sostituite, le persone se ne vanno oppure litigano, oppure muoiono, una specie di replica di quello che succede nella vita di relazione normale».

Su Facebook si invecchia e si muore, ne sono un esempio i profili commemorativi o stime secondo cui, entro il 2070, il numero degli utenti deceduti supererà quello dei vivi. Verosimile? Quel che è certo è che anche le piattaforme invecchiano, tutte, senza distinzioni, perdono smalto, si deteriorano. «È quella che Cory Doctorow chiama “enshittification”, le piattaforme attraversano fasi di decadimento, Doctorow si riferisce a TikTok ma vale per tutte. Prima le piattaforme trattano bene i loro utenti, poi abusano dei loro utenti per rendere migliori le cose per i business customer, gli inserzionisti diciamo, poi abusano anche dei loro business customer per riprendere tutto il valore per loro stessi e poi muoiono».

A che punto siamo ora nell’èra della retromania? Quello che so è che, secondo Facebook, io, dodici anni fa, ero in un luogo per me ora estraneo. Sicuri di voler tornare indietro nella timeline?

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