Da una decina d’anni a questa parte, sempre più giovani si sentono soli e infelici, soffrono di disturbi mentali quali la depressione, i disturbi d’ansia, i disturbi del comportamento alimentare, e tentano il suicidio, talvolta – purtroppo – riuscendo nell’intento.

Dopo la pandemia di Covid-19, poi, il numero di quelli affetti da depressione o disturbi d’ansia è quintuplicato, e quello di chi soffre di disturbi del comportamento alimentare è aumentato del 30 per cento.

Qual è la causa? Se date retta ai giornali o alla tv non avete dubbi: è tutta colpa dei social e dei telefonini. I giovani passano troppo tempo attaccati allo schermo, si isolano, gli influencer gli propongono ideali di successo e di bellezza irraggiungibili, così si incupiscono, si deprimono, e si tolgono la vita.

Qualche settimana fa, lo ha ribadito persino il responsabile della Salute Pubblica degli Usa, il vice ammiraglio Vivek Murthy: i social sono dannosi per i giovani, e bisognerebbe inserire avvisi per i genitori che li mettano in guardia contro le minacce potenziali che essi rappresentano per la salute mentale dei loro figli. Peccato che non sia vero nulla. O, per meglio dire, che non esista una sola ricerca scientifica che dimostri in maniera chiara e inequivocabile che i social fanno male alla salute mentale dei giovani.

Sembra incredibile, ma gli scienziati che sostengono che il malessere mentale dei giovani è provocato dall’eccesso di tempo trascorso attaccati ai telefonini a guardare pagine social (il cosiddetto “screentime”) sono pochissimi, una esigua minoranza. La principale sostenitrice di questa tesi è Jean Twenge.

Jean Twenge è una psicologa che insegna all’Università di San Diego, in California. Ha scritto un libro che ha avuto molto successo negli Usa, intitolato iGen, dove i sta per iperconnessi, il cui sottotitolo recita: “Perché i giovani iper-connessi di oggi crescono meno ribelli, più tolleranti, meno felici e completamente impreparati per l’età adulta”.

In un suo articolo pubblicato sulla rivista The Atlantic, Twenge si chiedeva: «I cellulari hanno distrutto una generazione?». La sua risposta scontata è: ovviamente sì. Lei sostiene che i nati dopo il 1995 sono vittima di una epidemia di disturbi mentali causata dal dilagare dei telefonini e dei social. In un altro suo articolo pubblicato su Emotion, rivista della American Psychological Association, intitolato “La diminuzione del benessere psicologico tra gli adolescenti americani dopo il 2012 è legato al tempo passato davanti a uno schermo durante la diffusione della tecnologia degli smartphone”, spiega le sue tesi.

Il suo studio si basa su un vasto rapporto stilato dall’associazione Monitoring The Future, a cui partecipano l’Università del Michigan, l’Istituto nazionale della Salute e l’Istituto nazionale sull’abuso di droga statunitensi: ogni anno circa 50.000 studenti delle scuole medie e superiori vengono intervistati per valutare comportamenti, attitudini e valori.

I dati

Esaminando questi dati, Twenge ha trovato che circa il 13 per cento degli studenti dalla seconda media alla terza liceo che passano da una a due ore a settimana sui social «non sono felici»; tra quelli che passano da 10 a 19 ore a settimana sui social i «non felici» sono il 18 per cento; tra coloro che passano 40 o più ore a settimana sui social i «non felici» salgono al 24 per cento. Dice Twenge: «È chiaro: più tempo passi sui social e più sei infelice».

Però, dimentica di dire che tra gli studenti di quarta liceo questa correlazione svanisce, dato che la loro infelicità non aumenta col numero delle ore passate sui social. E come mai 8 giovani su 10 che soffrono di depressione sono di sesso femminile? Gli smartphone non hanno effetto sui maschi?

Se la teoria reggesse, poi, un adolescente che passa zero ore a settimana sui social dovrebbe essere felicissimo e per niente depresso: invece, lo stesso rapporto dimostra che gli adolescenti che passano zero ore davanti a un telefonino sono più infelici dei loro pari che ci restano attaccati per ore e ore.

Jean Twenge è un personaggio molto controverso. I suoi detrattori sostengono che passa più tempo in televisione che in laboratorio, che non ha mai prodotto ricerche di rilievo, e che gli studi condotti da lei e dal suo collaboratore più fidato – Jonathan Haidt, uno psicologo che insegna alla New York University – sono pieni di errori e forzature.

Jonathan Haidt a sua volta ha scritto un libro, di recente pubblicato in Italia, dal titolo: “La generazione ansiosa: come la grande modificazione delle connessioni cerebrali del bambino sta causando una epidemia di malattie mentali”. Le sue tesi sono le stesse della sua più famosa collega: fin da piccoli i nostri figli passano troppo tempo davanti allo schermo di un cellulare, questo modifica il loro cervello e provoca l’epidemia di disturbi mentali che li affligge.

Le obiezioni

Candice Odgers – professoressa di psicologia dell’Università di California a Irvine, che a differenza dei suoi due colleghi ha condotto molti esperimenti sul campo per valutare quali effetti abbiano i social e i cellulari sullo sviluppo dei giovani – ha scritto un rovente articolo su Nature – la rivista scientifica più importante del pianeta – in cui recensisce il libro di Haidt, demolendolo. Scrive Odgers: «Bisogna dire due cose dopo aver letto La generazione ansiosa.

Primo, questo libro venderà un mucchio di copie perché Jonathan Haidt racconta una storia spaventosa sullo sviluppo dei nostri bambini che molti genitori saranno spinti a credere.

Secondo, la tesi più volte ripetuta nel libro che le tecnologie digitali stiano provocando una modificazione delle connessioni nervose nel cervello dei nostri bambini e causando un’epidemia di disturbi mentali non è supportata dalla scienza. E, peggio ancora, proporre in modo sfacciato che i social media siano la causa di tutto ciò ci potrebbe distogliere dall’affrontare efficacemente le cause reali dell’attuale crisi di salute mentale dei nostri giovani».

Continua Odgers: «Centinaia di ricercatori – me compresa – hanno condotto ricerche per capire se il tempo passato sui social abbia effetti pesanti. I nostri sforzi hanno dimostrato che o non c’è nessun effetto, o l’effetto è minuscolo, o molto dubbio.

E quando questi studi si sono protratti nel tempo hanno suggerito non che l’uso dei social media predice o causa la depressione, bensì che i giovani che già soffrono di disturbi mentali utilizzano queste piattaforme più spesso o in modi diversi rispetto ai loro pari».

Un’ipotesi di altre cause

Detto in parole più semplici, per Twenge e Haidt i cellulari causano il malessere psichico dei giovani; invece, quasi tutti gli scienziati e gli studi scientifici mostrano che questo nesso di causalità andrebbe rovesciato, cioè se io sono un adolescente infelice allora mi attacco allo schermo del telefonino proprio per fuggire dalle cose della mia vita che mi rendono infelice – come una famiglia disfunzionale con genitori che mi angosciano, o una situazione economica o sociale che mi terrorizza – e non viceversa.

Altri studi scientifici hanno dimostrato che i cellulari e i social media possono anche avere effetti positivi – per esempio, i like ottenuti sui social attivano i centri del piacere e della ricompensa del cervello e quindi fanno sentire i giovani meno isolati e più felici.

Altri che i social non sono intrinsecamente dannosi ma possono migliorare le abilità sociali e aiutare i giovani a sviluppare una migliore resilienza psicologica.

Basterebbe ascoltarli, i giovani, e chiedere loro qual è la causa delle loro ansie. In un ampio sondaggio condotto su 15.000 giovani da Scomodo.org, alla domanda «quali sono le tue paure per il futuro?», il 94 per cento ha risposto «l’ambiente e il cambiamento climatico», e il 90% l’economia e «l’aumento dei prezzi». E se fossero queste le cause del malessere psicologico dei nostri figli?

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