Anar Mammadli, avvocato per i diritti civili, fondatore di Climate of Justice Initiative, è stato arrestato il 29 aprile in Azerbaigian con l’accusa di contrabbando. Prima in carcere e ora ai domiciliari c’è anche Gubad Ibadoghlu, ricercatore della London School of Economics, con l’accusa di possesso di valuta straniera. Sorte analoga anche per giornalisti, youtuber, accademici, attivisti. Human Rights Watch ha segnalato venticinque casi simili di arresto, detenzione e processi nel paese nell’ultimo anno, «tutti con accuse penali fasulle».

L’Azerbaigian è governato dal presidente Ilham Aliyev, al quinto mandato, ultime elezioni vinte a febbraio con il 92 per cento dei voti. Le accuse di violazione dei diritti umani sono una costante per il paese, però il 2024 non è un anno come gli altri per Baku, che a novembre ospiterà la Cop29, la conferenza annuale dell’Onu sui cambiamenti climatici, un evento che in teoria sarebbe fondato anche sulla libera partecipazione della società civile al negoziato. Il paese che organizza una Cop non ha un ruolo solo logistico o cerimoniale ma anche politico.

Saranno le autorità dell’Azerbaigian a coordinare e condurre il negoziato sulla riduzione delle emissioni, che oggi non sembra una priorità di Aliyev. Di recente il presidente ha definito le riserve di petrolio e gas «un dono di Dio».
L’evento è stato rocambolescamente assegnato sul finire della Cop28 di Dubai, di fatto per mano della Russia di Putin. Come previsto dalla convenzione Onu sui cambiamenti climatici, le conferenze sul clima ruotano per aree geografiche, in modo da essere inclusive e rappresentative di tutti gli stati. Il 2024 era previsto il turno di un paese di un’area che comprende l’Europa orientale, la Russia e il Caucaso.

Solo i paesi dell’area hanno diritto di veto sull’assegnazione, Putin ha deciso di esercitarlo contro qualsiasi membro dell’Unione europea, e così la scelta è caduta sull’Azerbaigian, incoraggiata anche da una distensione e da uno scambio di prigionieri con l’Armenia, con cui è in conflitto per il controllo dell’area del Nagorno Karabakh.

L’Armenia a quel punto ha accettato (a sorpresa) di non mettere il veto, e così il carrozzone Onu del clima è stato dirottato da Sofia (che sembrava la candidata più forte prima del niet di Putin) a Baku. Con la tripletta Egitto (2022), Emirati Arabi Uniti (2023) e Azerbaigian (2024), è la terza Cop di fila che viene assegnata a un paese che è allo stesso tempo un produttore di combustibili fossili e un regime non democratico.

Stato-famiglia

Baku avrebbe potuto interpretare politicamente l’evento in due modi: rallentare la repressione, per mostrare la sua faccia rispettabile di paese che sta al tavolo buono del mondo (in passato ha organizzato eventi di rilievo internazionale, dall’Eurovision ai gran premi di Formula 1), oppure intensificarla per evitare che a novembre qualunque voce critica locale potesse emergere e mettere in difficoltà il presidente.

Hanno scelto la seconda strada, opzione che non ha stupito chi conosce il paese, come Ronald Suny, docente di storia del Caucaso alla University of Michigan. In un’intervista col sito specializzato Heatmap, Suny ha commentato: «È sconvolgente che abbiano assegnato la Cop a Baku. L’Azerbaigian non è nemmeno uno stato-partito, è uno stato-famiglia». Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, il potere è stato preso dell’ex segretario del Partito comunista dell’Azerbaijan Heydar Aliyev, che poco prima di morire nel 2003 ha passato il potere a suo figlio Ilham, che da allora è presidente. «Il controllo sui media è assoluto ed è ancora più severo che in Russia. Tutte le voci critiche sono in prigione oppure in esilio», ha concluso Suny.

La Cop29 partirà l’11 novembre, gli auspici non sembrano eccellenti, anche al di là del clima politico nel paese ospitante. Si sono appena chiusi i negoziati intermedi, che si tengono ogni anno a Bonn, in Germania, e che hanno lo scopo di definire l’agenda, i temi e le priorità della Cop successiva. Sono andati male: l’obiettivo della Cop29 è prettamente finanziario, i paesi più vulnerabili chiedono un salto di scala negli aiuti per fare le transizioni, per adattarsi e per ripagarsi delle perdite da eventi estremi.

La cifra messa sul piatto dai paesi sviluppati finora è stata di 100 miliardi di dollari ogni anno, la richiesta è di arrivare a 1.000 miliardi di dollari, il margine politico per trovare un accordo sembra molto ridotto. E c’è l’incognita delle elezioni negli Stati Uniti, che si svolgeranno il 5 novembre, esattamente una settimana prima dei lavori di Baku.

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