Fare la spesa con mia madre è un tuffo nel passato. All’improvviso ritorno a quando esistevano le melanzane anche d’inverno, i lamponi in ogni stagione, i broccoli d’estate; bistecche e salmone non avevano storia. È un tempo durato fino a pochi anni fa eppure lontanissimo, in cui ero libera perché la mia mente non visualizzava immediatamente tutto il passato e il futuro di un prodotto.

Potevo guardare una vaschetta di pollo senza immaginare la vaschetta veleggiare un giorno lungo le correnti dell’oceano Atlantico e senza pensare alla vita tremenda di una gallina stipata in un enorme capannone lercio insieme a 40 mila suoi simili, tutti rimpinzati di antibiotici e ormoni.

Oggi è impossibile. È successo a un certo punto, non saprei dire quando: il supermercato si è trasformato in una sorta di casa stregata in cui ogni prodotto urla le proprie pene e improperi.

L’orrore oltre al presente

Guardo il pollo, lo immagino macellato, cosparso di conservanti e incellophanato, viaggiare per chilometri su grossi camion e raggiungere questo supermercato. Visualizzo il dispendio in termini di inquinamento dell’aria che respiro, di emissioni climalteranti e di danni alla mia salute dovuti sia alla pessima qualità della carne sia alle microplastiche che un giorno mi troveranno agglomerate nello stomaco.

Un frutto fuori stagione grida di dispendiose serre, impianti di irrigazione in tempi di siccità, immigrati sottopagati, terra esausta e sempre più sterile. In una merendina confezionata distinguo solo i grassi idrogenati e i conservati. In una fetta di salmone vedo un pesce a rischio di estinzione perché tutti i ristoranti sushi del mondo chiedono solo salmone e tonno. Ma poi penso che questo è certamente di allevamento, carico di diossine, idrocarburi, antibiotici e pesticidi.

Mia madre è serena. Vede solo i prodotti lì, presenti. Al massimo alcuni contengono storie e significati emotivi che è lei ad assegnare, fatti di ricordi, periodi della vita. Credo sia una delle differenze che solca la distanza più profonda fra la sua generazione e la mia. Beata inconsapevolezza, splendida inconsapevolezza: che per più di cinquant’anni ha convinto mezzo mondo che le cose apparissero nei negozi con un colpo di bacchetta magica e poi scomparissero nel nulla appena raggiunto il bidone della spazzatura.

Ne parlava Walter Siti in un librino uscito nel 2018 per Nottetempo. Si intitolava Pagare o non pagare e raccontava di questa strana forma di oblio per cui, davanti a una maglietta a cinque euro o a salmone affumicato a prezzi bassissimi, riusciamo a spegnere il cervello e a non chiederci da dove venga e come faccia a costare così poco. E soprattutto: chi ha pagato il prezzo che non sta pagando il consumatore?

La crisi climatica dovrebbe averci dato una botta in testa e averci ricordato che nulla si crea gratuitamente e per magia e nulla si distrugge appena lo chiudiamo in un cestino.

Da anni ormai vado al supermercato quasi solo per prendere la sabbia per il gatto, la carta igienica, la pasta e il riso. Il resto lo recupero tramite mercati contadini o piattaforme che recuperano prodotti di scarto (troppo piccoli, grossi, brutti per finire al mercato) da aziende discretamente virtuose. Meno packaging possibile, meno cibi confezionati possibili.

Fuori dalla bolla

A vari livelli di psicosi, molte delle persone che ho attorno si comportano come me. Non mia madre, ma è una boomer e come molti suoi coetanei è abbastanza immune a questi cambiamenti culturali (per questo vedere ogni tanto come fa la spesa lei è interessante).

Ma fuori dalle bolle ecologiste e dai giri di cuochi sperimentali anti spreco e per il vino naturale (verdure mai sentite, quinto quarto, vini che sembrano succhi di frutta), anche fra i miei, di coetanei, si possono trovare sacche di resistenza sorprendenti. Sono millennials che fino alla pandemia al massimo riscaldavano un un sugo pronto e con il lockdown hanno iniziato improvvisamente a cucinare, e ora adorano stare ai fornelli.

Rivendicano cura e dedizione, con tutti i «mi piace così tanto fare da mangiare ben, ci ho anche messo un tocco di zenzero» del caso. E poi ti invitano a cena magari una sera di dicembre o febbraio e ti propongono spaghetti con melanzane, sugo fresco di pomodorini freschi freschi e salsiccia. E per antipasto una salsa guacamole. Wow.

Io vengo da settimane o mesi in cui il mio frigo è invaso da cavoli e verza, e all’improvviso mi sento in vacanza. Mangio senza farmi domande ed è bellissimo e sono grata a loro di non essersi accorti di niente, di non aver nemmeno mai sentito l’eco di una manifestazione di Fridays for Future o di un rapporto inquietante sull’impatto dell’agrobusiness.

Pur essendo parte di una specie umana che abita a Milano, va al cinema Beltrade e a volte legge i giornali, sembrano immuni anche a Food for profit, un documentario di Giulia Innocenzi sugli allevamenti intensivi che per il suo genere sta girando tantissimo.

Io sono andata a vederlo e ho pure pianto. Alla fine hanno acceso le luci e ho visto che anche una persona dietro di me si asciugava le lacrime. Ho pensato che non ero l’unica e quindi forse non sono completamente pazza o completamente eco-nazi. Non so per cosa piangesse lei. Probabilmente per lo sguardo affranto di un maiale che guarda quasi in camera. Per i polli troppo magri ammazzati a bastonate, per le mucche inseminate artificialmente perché producano più latte.

La violenza

Simone Weil oggi forse scriverebbe l’Animale e il sacro, invece della Persona e il sacro. O anzi: La terra e il sacro. Non per escludere l’umano ma per includere tutti gli altri in quel sacro di cui parlava: quel qualcosa che va oltre le specificità di una persona, i meriti, le colpe. Quel qualcosa di impersonale che sta prima di tutto e che fa sì che un umano ma anche un pollo si aspetti che gli si faccia del bene e grida di sconcerto di fronte all’ingiustizia gratuita.

Ecco, lei forse piangeva per quel sentimento di sacro. Io no. Non perché non ci fosse da piangere ma perché non mi aspettavo niente di diverso da quella violenza, lo squallore, i migranti pagati sei euro l’ora e obbligati dai padroni a prendere a bastonate gli animali.

No, io ho iniziato a piangere quando Giulia Innocenzi va al parlamento europeo a chiedere conto di tutto quello che ha visto ed è evidente che non caverà un ragno dal buco. A quel punto, nel buio della sala, ho messo la luminosità del cellulare al minimo e ho cercato su Google il nome del lobbista-deputato (pagato sia come deputato che come lobbista dell’agrobusiness) che più volte si sente parlare durante il documentario e sembra una sorta di angelo del male disposto a difendere le idee più turpi in nome della produzione di carne.

Volevo vedere se fosse della Lega o di Fratelli d’Italia, per dire. Invece era del Partito democratico. Non che nutrissi chissà quali aspettative negli europarlamentari del Pd, però accidenti. Se l’angelo del male è nel Pd (posto che i partiti strettamente ambientalisti quando esistono prendono attorno all’1 per cento), allora non c’è proprio niente in cui sperare.

Fantasia segreta

In momenti come questi dubito della democrazia e immagino come unica soluzione alla crisi climatica una dittatura (anche temporanea eh) di papa Francesco, Antonio Guterres e Greta Thumberg. Se i Pd d’Europa (figurarsi poi posti tipo Cina o Stati Uniti) stanno messi così, con l’angelo del male pagato dall’agrobusiness per spingere istanze come animali geneticamente modificati e gonfiati a suon di antibiotici perché crescano più velocemente, allora è l’unica soluzione.

Mi immagino papa Francesco, Guterres e Greta con poteri illimitati tipo per un anno, che chiudono con un sol colpo di bacchetta magica tutti gli allevamenti intensivi del mondo; i migranti che ci lavoravano dentro (intanto regolarizzati e con finalmente una casa dove farsi raggiungere dalle proprie famiglie) vengono assoldati con condizioni lavorative nettamente migliori per piantare un sacco di nuove foreste e curarle.

Poi con un altro colpo di bacchetta trasformano i latifondi dell’agricoltura intensiva (anche quelli precedentemente usati per produrre mangime per gli allevamenti intensivi) in piccoli appezzamenti da redistribuire fra i contadini. Con un altro colpo di bacchetta chiudono tutte le aziende di cibi superlavorati, superinsani che contribuiscono ad abbassare gravemente il costo del cibo per i produttori e ad aumentarlo per i consumatori.

A quel punto, il resto andrà da sé: la grande distribuzione imploderà, i camion e le navi cargo che impestano le strade e i mari non avranno più niente da trasportare, o comunque molto meno, e quindi la richiesta di carburante calerà enormemente a sua volta e si dovranno fermare fraking e trivelle e così vivremo tutti felici e contenti. Beh, quasi tutti: forse mia madre e gli amanti di pomodorini invernali un po’ meno, ma possiamo sperare che un po’ di pazienza il riscaldamento climatico porti succosi pomodori di stagione a chilometro zero anche a gennaio.

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