Secondo le previsioni autunnali della Commissione europea, pubblicate il 15 novembre, la legge di bilancio in discussione al Parlamento non metterà su un percorso di discesa disavanzo e debito. In particolare, il rapporto tra debito e PIL continuerebbe a crescere nel 2024 e 2025, diversamente dalle previsioni ufficiali italiane che proiettano una diminuzione continua, sebbene lieve, in tutto il periodo.

Tra i motivi del divario tra le previsioni della Commissione e quelle del Governo, c’è il fatto che la prima ipotizza che nel 2025 verrà confermato il taglio del cuneo fiscale sul lavoro (fiscalizzazione dei contributi previdenziali e riduzione dell’Irpef) che la legge di bilancio limita al solo 2024, pur con un impegno politico a rendere in futuro strutturali le misure. 

Una manovra prudente?

Ciò induce a riconsiderare la qualifica di “prudenza” che governo e molti osservatori hanno attribuito alla legge di bilancio. In realtà essa è messa a rischio dalla circostanza che una serie di misure sono state introdotte solo per un anno. Le due più importanti sono appunto il taglio dei contributi previdenziali fino a un reddito di 35.000 euro e l’accorpamento dei primi due scaglioni dell’Irpef, che insieme valgono circa 15 miliardi.

Ma ve ne sono molte altre: la detassazione del welfare aziendale e dei premi di produttività, la riduzione del canone RAI (un risparmio di 20 euro per un anno), il differimento (di sei mesi) di plastic e sugar tax, l’azzeramento dei contributi previdenziali per le lavoratrici dipendenti a tempo indeterminato con due figli, il credito di imposta per gli investimenti nella Zona economica speciale del Mezzogiorno, il rifinanziamento della legge Sabatini per gli investimenti. In totale circa 4 miliardi. Al contrario, ma sempre nella direzione di alleggerire i bilanci futuri, c’è l’impegno a tagli di spesa (per investimenti) che si realizzeranno nel 2026: la riprogrammazione dei programmi della Difesa (1,5 miliardi) e dell’intero bilancio statale (9 miliardi). Per non parlare di un misterioso programma di privatizzazioni per 20 miliardi decisivo per le stime del governo di riduzione del debito da qui al 2026. Insomma una manovra prudente per il 2024 ma scritta sull’acqua per gli anni successivi.

Tra le principali misure solo tre mostrano una proiezione di spesa su tutto il triennio: i finanziamenti per la sanità (1,9 miliardi nel 2024 e 2,9 miliardi nel 2026), per i contratti del pubblico impiego (1,5 miliardi nel 2024 e 2,5 miliardi nel 2026, al netto delle entrate fiscali e contributive sugli aumenti delle retribuzioni) e per il ponte sullo stretto di Messina (400 milioni nel 2024 e 800 milioni nel 2026).

Le nuove regole

Tutto ciò va visto alla luce della discussione in corso in Europa sulla riforma delle regole fiscali. La proposta della Commissione prevedeva regole disegnate sul medio termine (4-7 anni) sulla base di piani concordati con i singoli paesi, per superare i difetti del sistema attuale di regole uniformi per tutti i paesi, concentrate su prescrizioni annuali (una data riduzione del disavanzo e del debito anno per anno).

Regole disegnate sulle condizioni di ciascun paese sono preferibili all’uniformità anche perché aumentano il grado di partecipazione e la condivisione a livello nazionale. Un approccio di medio termine invece che annuale è funzionale a garantire la coerenza tra obiettivi di sostenibilità e di sostegno della crescita. La proposta ha incontrato l’opposizione della Germania che insiste per mantenere una parte delle vecchie regole, in particolare una serie di prescrizioni annuali da rispettare comunque. In sintesi la Germania teme che altri paesi non rispetterebbero impegni pluriennali.

La storia della finanza pubblica italiana è una illustrazione della fondatezza di questi timori (basti ricordare la questione della clausola IVA che per molti anni ha ipotecato le leggi di bilancio), il bilancio di quest’anno esalta il nostro approccio tradizionale e rischia di essere un potente argomento a favore della posizione tedesca.            

Contribuisce alla crescita? Vedi ACE 

Vi è poi il tema della qualità della manovra rispetto alla capacità delle misure di fornire uno stimolo alla crescita economica. Da questo punto di vista le prospettive non sono incoraggianti. Esaurito il rimbalzo del dopo-pandemia, dal 2024 l’Italia tornerà a crescere meno della media dell’Eurozona, la normalità del decennio pre-pandemia. I limiti strutturali della nostra economia (frammentarietà del sistema produttivo, bassa produttività e bassi salari) sembrano tornare a pesare. Resta la speranza degli investimenti del PNRR, sulla cui realizzazione si basano le previsioni ufficiali di crescita per quanto modeste possano sembrare. Tuttavia, pesano ancora su questo obiettivo ritardi e incertezze che non lasciano tranquilli (si veda il recente rapporto della Corte dei Conti). Se si guarda alla legge con l’ottica del contributo alla crescita, il quadro non è molto confortante. Vediamo un paio di esempi.

L’intervento di maggior dimensione per il 2024 è il rinnovo dello sgravio contributivo. L’obiettivo di sostenere i salari più bassi (fino a 35.000 euro) è degno di nota e lodevole. Tuttavia lo strumento presenta alcuni difetti. Innanzi tutto il modo in cui è disegnato, per classi di reddito (e non per scaglioni): superando la soglia dei 35.000 euro si perde l’intero sgravio e quindi ci si ritrova con un reddito netto minore di prima.

Poi c’è l’effetto negativo della riduzione dei contributi sull’equilibrio del sistema pensionistico.  Sfuggono i motivi della popolarità della fiscalizzazione dei contributi come strumento per il sostegno dei redditi (in questo caso) o per indurre comportamenti (quando viene usato come incentivo per assumere determinate categorie di lavoratori). Si tratta di uno strumento che può avere una logica di sostegno temporaneo dei redditi bassi ma che non è opportuno rendere permanente. 

Si possono ottenere gli stessi risultati in modo più trasparente in vari modi, ad esempio con un credito di imposta rimborsabile (sul modello dell’Earned income tax credit, usato negli Stati Uniti da decenni). E’ fondamentale mantenere chiaro il legame, a livello individuale, tra contributi versati e pensione futura e non interferire con il sistema previdenziale. Analogamente, nel caso dell’azzeramento dei contributi previdenziali per le lavoratrici dipendenti a tempo indeterminato, non si capisce perché le stesse finalità non possano essere perseguite potenziando l’assegno unico per i carichi familiari, uno schema introdotto proprio per superare la frammentazione e la confusione di strumenti di sostegno della famiglia.   

Tornando alla questione salariale, non si può pensare di risolverla con sussidi o agevolazioni. Occorre invece favorire la crescita delle imprese e ridurre il peso di quelle piccole. Grandi imprese implicano maggiore produttività e salari più alti, in una sola parola posti di lavoro di qualità.

Su questo un ruolo importante è giocato dal sistema tributario e, come si è detto più volte su queste colonne, la delega fiscale non va nella giusta direzione. Questo giudizio è confermato da una novità presente nello schema di decreto legislativo per la riforma dell’Irpef: l’abrogazione dell’ACE (aiuto alla crescita economica) che si tradurrebbe in maggiori entrate per 4,8 miliardi nel 2025 e 2,8 miliardi a regime. Lo schema introdotto nel 2011 consiste in una deduzione, dal reddito di impresa, di un importo che corrisponde al rendimento figurativo degli incrementi di capitale proprio.

Lo scopo è la neutralità del sistema tributario rispetto alla scelta delle fonti di finanziamento. Tradizionalmente il costo del debito (gli interessi passivi) è deducibile dal reddito di impresa, il che determina una preferenza per il debito. L’ACE serve, appunto, ad eliminare questa distorsione. Superfluo sottolineare come ciò sia particolarmente importante nel nostro paese dove la sottocapitalizzazione delle imprese, in parte collegata alla prevalenza di imprese familiari, costituisce un fattore di debolezza.

Come ha fatto notare l’Ufficio parlamentare di bilancio, riguardo all’efficacia dell’ACE, è indicativo come l’incidenza degli impieghi bancari delle imprese non finanziarie sul Pil che era pari al 60% nel 2011 sia sceso al 40% nel 2019.

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