Tra gli universi paralleli delle Olimpiadi e Paralimpiadi c’è un limbo chiamato Giochi olimpici per i sordi (Deaflympics). Non è facile comprendere le ragioni per cui le persone sorde non sono incluse nelle attività paralimpiche: certamente più semplice è capire perché facciano fatica a partecipare a quelle olimpiche.

Le distanze tra mondi anche apparentemente simili possono essere un vuoto che inghiotte oppure uno spazio in cui volare, se sai domare la gravità e trasformarla nella bellezza di un tuffo. Perciò nessuno può darci delle spiegazioni meglio di Piero Italiani, sesto classificato nella disciplina del trampolino da tre metri ai Giochi olimpici di Los Angeles nel 1984 e sordo dalla nascita.

Da bambino praticava il nuoto ma poi, quando iniziarono le gare, lo svantaggio di non sentire lo start divenne un limite al piacere di praticare. Un giorno vide in tv Klaus Dibiasi, mito azzurro dei tuffi, tre volte oro in tre edizioni olimpiche. Bastarono pochi secondi per dare il via si sogni. Non fu difficile convincere mamma Pierrette e papà Aldo, i suoi primi sostenitori, a portarlo a un provino. E per quei curiosi percorsi che il destino disegna per te quando sai desiderare in maniera autentica, fatalità, proprio in quella piscina c’era lui, Klaus, che si stava allenando.

Altoatesino di poche parole, avvezzo ai silenzi e alla comunicazione essenziale, non vedeva nella sordità di Piero un limite; al contrario rimase sbalordito dal talento cristallino di Piero che, osservato dal suo campione, fece un provino straordinario. Che tu sia udente o no, abile o disabile, c’è sempre bisogno di qualcuno che creda in te e ti aiuti a far fiorire le tue capacità e così l’incontro con Dibiasi dà ali ai sogni di Piero. Negli anni seguenti proprio Klaus, terminata la carriera da atleta e iniziata quella da coach, diventerà il suo allenatore: nel frattempo il talento di Piero venne affidato alla competenza di Giannini e poi Toblini del GS Fiamme Oro.

Piero, prima di questa intervista abbiamo avuto modo di scambiarci pareri sugli eventi sportivi dell’estate. Mi è sembrato di avvertire una nota di rammarico da parte sua, nell’assenza degli atleti sordi dalla grande festa paralimpica o sbaglio?

Sì, assistere alla crescita di attenzione e popolarità del movimento paralimpico evidenzia che il Comitato Internazionale degli Sport dei Sordi (ICSD – International Committee of Sports for the Deaf) ha perso una grande occasione rifiutando l’invito.

In che senso?

Nel senso che il Comitato paralimpico internazionale ha proposto all’ ICSD di entrare nel programma del Giochi paralimpici con alcune discipline ma l’invito è stato declinato perché le specialità incluse sarebbero state molte meno rispetto al programma dei Deaflympics.

Però tutte le federazioni che entrano nel programma olimpico devono adattare o ridurre il numero delle proprie discipline. Perché pensa sia stato un fattore determinante per non accettare la proposta?

I Giochi olimpici dedicati alle persone sorde hanno una lunga storia, iniziata nel 1924 a Parigi, quindi molti anni prima di quel 1960, a Roma, in cui vennero celebrati i primi Giochi paralimpici della storia. È probabile che ci fosse il desiderio di ricevere un riconoscimento per questo lungo corso e, di conseguenza, un’attenzione diversa, maggiore. E forse c’era anche timore di perdere autonomia. C’è la tendenza da parte dei sordi a definirsi come una comunità il cui tratto distintivo è la lingua dei segni. È forte la rivendicazione della propria specificità linguistica e identità culturale quali ricchezze dell’umanità. Anche questo aspetto può aver avuto un peso nel declinare l’invito.

Il suo è il terzo miglior risultato individuale di sempre di un tuffatore italiano ai Giochi olimpici dopo Dibiasi e Cagnotto. Oltre a Los Angeles ha partecipato ai Giochi di Seul ’88 e poi anche a un’edizione dei Deaflympics. Quali le differenze?

L’organizzazione, il pubblico, l’attenzione dei mass media per chi partecipa ai Giochi olimpici sono elementi che sorprendono ed emozionano. Ti fanno capire di essere protagonista di un evento che è importante universalmente e non solo per te che lo hai sognato, desiderato fin da quando eri piccolo. Sarebbe una grande opportunità per gli atleti sordi e un grande stimolo per uno stile di vita attivo per i sordi sedentari se lo sport entrasse maggiormente e meglio nelle loro abitudini. I Giochi olimpici per sordi invece godono di attenzione solo da parte degli addetti ai lavori. Però devo ammettere che in quel contesto mi sono sentito completamente compreso e accettato.

In che modo ritiene che la sordità abbia limitato i suoi risultati sportivi nei confronti degli atleti udenti?

In una specialità che si consuma in un paio di secondi e in cui la concentrazione deve essere assoluta (non solo per la prestazione ma anche per la sicurezza) è forte il disagio di non sentire il via ma di doverlo cercare con gli occhi. Per me infatti il giudice arbitro faceva un cenno piuttosto che usare il fischietto ma metterlo a fuoco in quel momento di estremo raccoglimento, magari davanti a un pubblico di migliaia di persone come quello delle Olimpiadi di Los Angeles oppure dai dieci metri di altezza della piattaforma, era uno sforzo che confliggeva con la preparazione al tuffo. Tecnicamente è stato un limite anche non sentire l’impatto con l’acqua: il rumore delle mani in fase di entrata è un importante riferimento per l’atleta di alto livello. Poi sopra a tutto c’è stato il problema della comunicazione. Il rapporto con Klaus è stato magnifico ma la vita da atleta si realizza anche attraverso l’equilibrio delle relazioni con lo staff, le persone nuove che conosci e quelle che ti aspettano a casa. Ora il cellulare semplifica molte cose.


Piero Italiani si è laureato in sociologia all’Università “La Sapienza” con un’interessante tesi sull’attività sportiva agonistica quale esperienza di integrazione tra sordi ed udenti. Professionalmente ha un ruolo importante nella segreteria della FIN ed è stato giudice internazionale. Peccato non abbia un incarico nella Federazione sport sordi d’Italia o meglio in quella internazionale, perché la sua carriera ha rappresentato un anello di congiunzione raro ed estremamente significativo tra lo sport olimpico e per persone sordi: ha aperto una via che forse sarebbe stata quella giusta da esplorare per togliere lo sport per sordi dall’isolamento. Nel 2005 è uscito un libro di Harlan Lane dal titolo The People of the Eye: Deaf Ethnicity and Ancestry in cui l’autore indaga l’identità culturale e linguistica delle persone sorde, trattandole come un gruppo etnico piuttosto che come una comunità con una disabilità.

Questa prospettiva permette di capire qualcosa in più del rifiuto ad entrare nel programma dei Giochi paralimpici, perché sarebbe il Cio, il comitato olimpico internazionale, a dover dimostrare la volontà di includere le persone sorde, rimuovendo gli ostacoli nella comunicazione che rappresentano uno svantaggio nella competizione.

Perlomeno nelle specialità in cui è possibile, per poi magari scoprire che è possibile in tutte! In fondo che il via dei 100 metri sia dato da uno sparo piuttosto che da un segnale luminoso, che differenza fa?

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