Domenica si sono chiuse a Parigi le Paralimpiadi e siamo tutti ancora scossi e commossi per la valanga di colorata diversità, di gestualità non conforme, di autoironia. Atlete e atleti capaci di performance incredibili, ti ritrovavi a seguire l’agonismo dimenticando la compassione, esattamente quel che loro hanno sempre desiderato.

Anche i meme più irrispettosi sui social non hanno scatenato indignazione, perché si aveva l’impressione di ridere con loro e non di loro. Assunta Legnante, discobola e pesista cieca, ha detto ai microfoni «Voglio andare a Los Angeles nel 2028 perché non ho mai visto l’America… Non la vedrò neanche stavolta però voglio andarci». E Rigivan Ganeshamoorthy, detto Rigi, romano della Dragona, a chi gli chiedeva come fosse l’atmosfera al villaggio olimpico ha risposto «No, bene, forse ci sono un po’ troppi disabili…»

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L'ironia 

Intanto aveva battuto per tre volte nella stessa gara il record mondiale del disco in carrozzina (anzi, su una “sedia di lancio”), evidentemente dotato di un braccio straordinario. Un italiano medaglia d’oro ha cantato l’inno di Mameli talmente a squarciagola che tutti intorno si sono azzittiti e lui ha proseguito imperterrito, incurante dell’imbarazzo perbenista. Nuotatori senza braccia o con arti appena abbozzati si spogliavano tranquillamente pensando solo alla gara e alla fine si abbracciavano con la spontaneità della gioia. Un contesto sereno e rasserenante, anche se non è mancata qualche polemica sul fatto che non tutti e in tutte le gare partivano realmente alla pari.

Per il Comitato paralimpico dev’essere stato difficilissimo stabilire le equivalenze tra forme di disabilità così variegate, native o acquisite, fisiche e psichiche; nei 150 misti di nuoto gli atleti senza braccia sono sfavoriti nel dorso, oppure nella rana, rispetto a quelli senza gambe? (Il delfino mi pare che fosse escluso). E nel vasto range degli ipovedenti basta prescrivere una maschera supplementare? Si è fatto ricorso a un’abbondanza di categorie diverse, F52 o S11 o TM8, quasi impossibile da decifrare per chi non sia un appassionato o uno specialista. E quanto una disabilità può essere accentuata nel momento dell’assegnazione di categoria?

La tecnologia ha fatto, come si dice, passi da gigante nel facilitare le performance, non solo con protesi superefficienti, ma con sedie leggere e mobilissime e innovazioni al limite del fantastico: nel calcio per ciechi, il pallone ha inseriti dei sonagli in acciaio che consentono di individuarlo con l’udito; per i paraplegici gravi che desiderano giocare a bocce c’è una specie di rampa graduata con scivolo, da cui dipende la velocità della boccia stessa nell’avvicinarsi all’obiettivo, e all’atleta basta dichiarare a voce l’altezza a cui si vuole che la boccia sia collocata sulla rampa. Poi ci sono gli assistenti, o guide: da quelli che nel salto in lungo gridano dal fondo per non far deviare i ciechi dalla pedana a quelli che nel nuoto toccano leggermente su una spalla gli atleti appena prima della virata, fino a quelli delle corse a piedi o in bicicletta col cordino, collaborazione così stretta da assomigliare a una simbiosi.

Il progetto delle gare miste

Gli assistenti normodotati salgono giustamente sul podio; per il futuro si pensa a gare miste, per esempio staffette con due disabili e due normodotati. Nel sitting volley già ora i normodotati possono entrare in squadra, basta che mentre giocano stiano con le natiche a contatto del pavimento. Perché un vedente non potrebbe partecipare a una partita di calcio per ciechi, se si bendasse? (Anzi, forse in quel caso sarebbe lui lo svantaggiato, avendo un udito meno fine). «La disabilità sta diventando normalità», dichiara soddisfatta Bebe Vio; e chissà che a Los Angeles nel 2028 non si faranno insieme le Olimpiadi e le Para. L’ideologia dell’inclusione celebra qui uno dei suoi punti alti ed estremi, ma quando qualosa diventa di moda è necessario attivare i distinguo.

Le Paralimpiadi parigine hanno avuto una copertura mediatica imparagonabile rispetto alle precedenti edizioni, Rai 2 ha praticamente sospeso ogni altra programmazione; e alla cerimonia di chiusura un commentatore ha ricordato che c’era stata all’inizio una raccomandazione della Rete, di non usare mai la parola «disabile», perché «qui vedrete soltanto delle grandi abilità». Ed è stato vero: persone che giocavano a ping pong reggendo la racchetta coi denti, o che riuscivano a tendere infallibilmente un arco con le dita dei piedi, o incredibili acrobazie con la sedia a rotelle freestyle.

Vantaggi o differenze

È vero probabilmente che molti atleti paralimpici si sentono individui migliori, non malgrado, ma grazie alla loro disabilità. Qui si presenta, ineludibile, la domanda di fondo: quando si afferma che al mondo non esistono svantaggi ma solo differenze, che tutti a nostro modo siamo unici, che in fatto di valori identitari si deve bandire per sempre l’espressione “x è meglio di y”, stiamo davvero costruendo una società più giusta?

Andiamo per gradi. È ovvio che nessuno oggi si sognerebbe di affermare senza vergogna che avere la pelle bianca è meglio che avercela nera, o che essere etero è meglio che essere gay, o addirittura che nascere maschio è meglio che nascere femmina (a meno che non ci si riferisca a una situazione di fatto in società retrograde che si spera vengano cancellate dalla Storia). Il nonno che tira un sospiro di sollievo al party del gender reveal vedendo salire al cielo i palloncini azzurri, o la zia preoccupata che la nipote sia fidanzata con un ragazzo senegalese, tutti li consideriamo residui reazionari da superare.

Ma se all’amniocentesi una donna incinta apprende che il feto presenta un’anomalia genetica per cui gli arti del feto non si svilupperanno regolarmente questo avrà o no un peso sulla sua libera scelta di portare a termine la gravidanza? Qualcuno oserà accusarla di aver negato la vita a un potenziale campione paralimpico? Avere due gambe è meglio che averne una sola? Mi colpì molto l’onestà di Ada D’Adamo (vincitrice del Premio Strega 2023 e madre di una figlia disabile) a proposito della mancanza di una diagnosi prenatale precisa che le avrebbe consentito di abortire. Anche questa è tecnologia.

Il paradosso di Vonnegut

Alcuni spot televisivi invitano a donazioni per la ricerca sulle malattie genetiche rare: in uno di questi un signore probabilmente toscano dice «Il peggio è scoprire che il tuo bambino non può fare le solite cose che fanno gli altri bambini»; ne potrà fare altre, magari più grandi e sorprendenti, ma non quelle. Una parola di semplice saggezza ci viene da Rigi, che della sua malattia dice «Ce la siamo trovata e ce la teniamo». Il coraggio e la tenacia che ci sono venuti dalle Paralimpiadi sono un esempio luminoso, ma sarebbe un peccato se questo esempio naufragasse in uno stolido sogno di uguaglianza generalizzata.

In Harrison Bergeron di Kurt Vonnegut (1961) si racconta che in un fantascientifico 2081 a nessuno è più consentito di superare nessun altro in bellezza, intelligenza o forza fisica: un “Handicapper generale” impone ai belli maschere imbruttenti, cuffie con suoni di distrazione agli intelligenti, alcuni pesi ai troppo agili. Harrison, bello e alto due metri, alla fine viene sacrificato in nome della democrazia estrema.

Se si continua a dire ai giovani che ognuno sta bene come sta, che se un tredicenne è obeso deve prendersela con il fat shaming piuttosto che fare una dieta, che ogni inferiorità è soltanto diversità positiva, che il mondo migliore è un mondo senza distinzioni in cui nessun giudizio di valore è più possibile, poi non ci meravigliamo se ci troviamo circondati da pavidi eversivi, infelici soddisfatti di sé, rivoluzionari esperti di come gli altri dovrebbero cambiare. Un’ideologia apatica e renitente all’azione, esattamente il contrario di quel che gli allegri e consapevoli atleti di Parigi ci hanno voluto trasmettere.

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