Quando si tratta di attività che servono a frenare il cambiamento climatico, molte strategie richiedono azioni personali. Piccoli gesti che, se realizzati da un gran numero di persone, possono avere un qualche effetto significativo.

Ciò non basta. Per questo c’è chi lavora per realizzare grandi progetti che abbiano un impatto molto forte. Si tratta di progetti costosi che potrebbero, se funzionassero, avere un impatto veramente profondo sui nostri sforzi, al momento limitati, per ridurre a zero le emissioni di carbonio. Ne sono stati avanzati molti, ma quali sono i più realistici? Vediamone alcuni.

Le isole hub

Il primo arriva dalla Danimarca. Se il paese riuscirà nell’intento, le acque fredde e agitate del mare del Nord ospiteranno presto una nuova isola conosciuta come “Vindø”.

Non si tratta di un’isola ecologica, bensì di un’isola costruita in cemento e acciaio dove si produrrà energia pulita in abbondanza. Il progetto fa parte di un programma più ampio per risolvere la crisi energetica costruendo «isole artificiali dove produrre energia» che sosterranno vasti parchi eolici.

L’Europa dispone già di numerose turbine eoliche offshore, ossia costruite in mare aperto, ma gli addetti ai lavori del settore energetico ritengono che abbiamo bisogno di molto di più se si vuole arrivare con successo allo “zero emissioni”.

L’energia eolica, però, presenta due inconvenienti. Il primo è che la produzione è intermittente, il che significa che può essere difficile far corrispondere l’offerta alla domanda.

Un’altra è che deve essere trasportata tramite cavi là dove serve, sulla terraferma – e l’infrastruttura necessaria è estremamente costosa. Le isole energetiche potrebbero risolvere, almeno parzialmente, entrambi i problemi.

Esse infatti fungerebbero da hub in una super-rete con collegamenti tra le isole create da diversi paesi. Ciò renderebbe più semplice bilanciare domanda e offerta e significherebbe che nel complesso saranno necessari meno cavi per il trasporto.

«Costruire qualsiasi cosa offshore è costoso», dice David Flood di Statkraft, il più grande produttore europeo di energia verde.

Quindi l’idea è quella di costruire solo poche isole in luoghi ritenuti ideali che abbiano molti collegamenti con varie nazioni. La danese Vindø è una delle almeno quattro isole di questo tipo destinate al mare del Nord. Paesi Bassi, Germania e Belgio hanno in programma di costruire strutture simili.

Mettendo insieme tutti i piani si produrrebbero 56 gigawatt di energia, più o meno equivalente a quella fornita da 30 centrali nucleari.

L’altra grande attrazione delle isole energetiche è che potrebbero essere utilizzate per produrre carburante pulito. Alcuni settori, come quello dei viaggi aerei e della produzione di acciaio e cemento, sono difficili da elettrificare, ma potrebbero essere alimentati dall’idrogeno a combustione pulita.

Le isole energetiche potrebbero fungere da hub per la sua produzione, utilizzando l’elettricità verde per alimentare macchine chiamate elettrolizzatori, che “dividono” la molecola dell’acqua per produrre idrogeno. Questo quindi, potrebbe essere spedito verso la terraferma.

Tra l’altro, a conti fatti, trasportare energia elettrica attraverso un cavo costa almeno 5 volte di più rispetto al trasporto dell’idrogeno verde attraverso un gasdotto. E poi non è da escludere che l’idrogeno possa essere convertito in ammoniaca – tanto pubblicizzato come futuro carburante per le navi – e le isole stile Vindø potrebbero anche fungere da stazioni di rifornimento marittimo.

Nel futuro di chi crede in questa strada la produzione di carburante verde potrebbe essere l’unico obiettivo di queste isole. E non c’è solo il mare del Nord.

Ci sono anche altri mari, come quello sulla costa occidentale dell’Irlanda, che hanno un enorme potenziale per la produzione eolica, ma sono in gran parte inutilizzati perché la domanda di elettricità nelle vicinanze è relativamente bassa. Sarebbero, dunque, un posto ideale per produrre idrogeno verde.

Una centrale solare nello spazio

Le nuvole possono essere fonte di ispirazione per poeti e romantici, ma per gli ingegneri dell’energia solare non sono altro che un fastidio. Quando il cielo si rannuvola, la potenza erogata scende quasi a zero. Ma se si “sposta” il pannello solare nello spazio, il problema scompare.

Da decenni gli ingegneri propongono l’idea di una centrale solare nello spazio e, se si guarda quanta energia potrebbe produrre, si capisce il perché. Secondo Ian Cash della International Electric Company, un pannello solare largo 10 chilometri in orbita geostazionaria potrebbe produrre 570 terawatt-anno di energia.

Ciò sarebbe sufficiente a rifornire 10 miliardi di persone a un consumo energetico pro capite sei volte superiore a quello attuale degli Stati Uniti (per fare un confronto, la domanda totale di elettricità del Regno Unito nel 2022 è stata di 320 terawattora). Allora perché non è ancora stato realizzato?

Per molto tempo la risposta è stata il costo. Un veicolo spaziale dotato di pannelli solari che si estendono per chilometri sarebbe pesante e lanciare nello spazio tutta l’attrezzatura necessaria sarebbe terribilmente costoso. Ma con l’arrivo dei razzi riutilizzabili costruiti da aziende come SpaceX, il prezzo è crollato.

Quando l’astronave di SpaceX chiamata Starship entrerà in attività, le stime suggeriscono che per inviare materiale nello spazio il costo sarebbe di “soli” 5.000 dollari al chilogrammo.

Si tratta di circa la metà di quanto costa oggi la nostra tecnologia missilistica più economica. «L’avvento dei veicoli di lancio riutilizzabili ha cambiato completamente l’economia», afferma Martin Soltau, co-CEO di Space Solar, una società britannica dedicata alla fornitura commerciale di energia solare dallo spazio.

Supponendo di poter costruire un’enorme centrale solare nello spazio, dovremmo poi restituirci l’energia. Fortunatamente, sappiamo come farlo: le microonde vengono trasmesse a un ricevitore a terra chiamato “rectenna”. I ricercatori del California Institute of Technology di Pasadena hanno dimostrato che ciò era fattibile per la prima volta a febbraio, nell’ambito del loro Space Solar Power Project.

La penisola del Sinai

Un tempo la penisola del Sinai era un paradiso subtropicale. Questa zona, nell’odierno Egitto, vantava fiumi che si intrecciavano attraverso foreste ed erbe scintillanti di rugiada. Poi, circa 10.000 anni fa, le colline diventarono marroni, i fiumi si seccarono e le sabbie polverose portarono via i resti della vita.

La colpa potrebbe essere in parte dovuta ai cambiamenti nell’orbita terrestre, ma l’intervento umano – l’abbattimento di alberi e il pascolo degli animali – è probabilmente ciò che ha fatto pendere l’ago della bilancia. E se potessimo riportare il Sinai al suo antico Eden?

In linea di principio, la vegetazione reintrodotta non solo risucchierebbe un’enorme quantità di carbonio dall’atmosfera, ma rinvigorirebbe anche i cicli idrici locali, inaugurando le precipitazioni disperatamente necessarie e consentendo alla flora e alla fauna di prosperare.

Un progetto del genere è stato studiato da una società olandese chiamata The Weather Makers. Al centro del piano dell’azienda c’è il lago Bardawil, una laguna salata poco profonda sulla costa mediterranea dell’Egitto.

Un tempo questa era profonda 40 metri, ma oggi i sedimenti lo hanno quasi riempito del tutto. Stando alla società si potrebbero approfondire gli ingressi al mare ed estrarre i sedimenti. Ciò migliorerebbe la qualità dell’acqua e ripristinerebbe la fauna del lago.

Entrambi rappresenterebbero un gradito impulso all’industria della pesca nel nord Sinai, una regione colpita dalla povertà, dal terrorismo e dalla guerra nella vicina Gaza. Insieme alla piantumazione di specie tolleranti al sale, gli scavi contribuirebbero anche ad ampliare le zone umide circostanti, creando un habitat migliore per gli uccelli migratori.

Mancherebbe solo una cosa: l’acqua fresca. Su questo a The Weather Makers hanno diverse idee. La prima consiste nell'utilizzare collettori di nebbia, ossia reti tese erette ad alta quota (già utilizzate da molto tempo in Cile), sulle quali il vapore acqueo atmosferico può condensarsi e gocciolare nei serbatoi.

Un’altra idea è quella di immagazzinare il sedimento umido scavato in enormi tunnel di pianura, dove il contenuto di acqua può evaporare prima di condensarsi sulle strutture e gocciolare verso il basso per irrigare le piante.

Alla fine, una volta che una massa critica di territorio sarà rinverdita, la biosfera della regione tornerà naturalmente al suo stato precedente e un ciclo dell’acqua autosufficiente continuerà tutto il duro lavoro – o almeno così sostiene il progetto.

Ci sono comunque delle critiche. Francesco Pausata, climatologo dell’Università del Quebec a Montreal, ritiene che occorra studiare gli effetti a catena sul clima che si possono avere altrove. «Questo tipo di geoingegneria può essere positivo per la popolazione locale», afferma, «ma vale la pena indagare più in dettaglio per evitare conseguenze indesiderate».

Al momento il piano è solo un’idea. Il team di The Weather Makers è ancora in trattative con il governo egiziano. Ma molti progetti ecologici su larga scala sono avviati o in fase di progetto avanzati.

Come l’iniziativa della Grande Muraglia Verde dell’Unione Africana, una striscia di alberi piantati spessa 15 chilometri che dovrebbe estendersi da Gibuti al Senegal, o l’altopiano del Loess in Cina, un’area grande all’incirca quanto la Francia che è stata rimboschita in vent’anni, a partire dalla fine degli anni ’90.

Il merito di questi particolari progetti è discutibile. «Dobbiamo renderci conto che i progetti di rinverdimento sono facili da commercializzare, ma nella maggior parte dei casi rappresentano una distrazione da (quelle che dovrebbero essere) le reali priorità e soluzioni per proteggere gli habitat che altrimenti perderemo», afferma Alice Hughes, biologa ambientalista presso l’Università di Hong Kong.

D’altro canto, uno studio del 2020 suggerisce che, in poco più di 30 anni, l’attività umana e il cambiamento climatico hanno contribuito a desertificare circa 270 milioni di ettari.

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