A piede libero c'è la squadra della morte, fatta di uomini ancora senza nome, che rapì, uccise e distrusse il corpo di Maria Chindamo.

La chiave per identificarla – è la novità che affiora dalle carte depositate al processo – potrebbe celarsi in una vettura demolita pochi giorni dopo il misfatto ed in un contatto telefonico sospetto che il suo proprietario ebbe con uno dei familiari del marito suicida dalla donna, proprio negli istanti in cui si consumava la scomparsa.

Il contesto

Il buco nero della Calabria s'affaccia sul Tirreno, protetto a Sud dalla Piana di Gioia Tauro e a Est dal promontorio del Poro. È quello della lupara bianca: cancella il corpo, sfregia la memoria della vittima che diventa un fantasma. In quarant'anni, solo nella provincia di Vibo Valentia, ha fagocitato cinquanta morti. Tutti uomini e una sola donna: Maria Chindamo, appunto, scomparsa il 6 maggio del 2016 dalla sua azienda agricola di Limbadi.

Brutalità

«Le hanno fatto fare una fine inumana», disse il procuratore Nicola Gratteri. Quand'era alla guida della Procura antimafia di Catanzaro, i suoi pm e i carabinieri del Ros raccolsero le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia: Maria sarebbe stata rapita, uccisa, data in pasto ai maiali; ciò che rimase fu triturato con una fresa agricola e poi sparso in un campo, come concime.

Non era una donna di mafia, tutt'altro: colta, commercialista, indipendente e intraprendente, perbene.

Il narcos alla sbarra

Un solo imputato, oggi in carcere e in attesa del giudizio di primo grado: Salvatore Ascone, presunto narcotrafficante di rango, conosciuto negli ambienti della malavita come "U Pinnularu” o “Mangiasuni”. Per gli inquirenti potrebbe aver preso parte all'omicidio e alla distruzione del corpo, non limitandosi ad oscurare le telecamere della sua tenuta, che potevano filmare l'agguato in presa diretta.

Secondo i pentiti, Ascone voleva impossessarsi dei terreni di Maria, gli unici a vista d'occhio sfuggiti al controllo del potente e feroce clan Mancuso.

La famiglia

Un movente, l'interesse sui terreni, ritenuto più che plausibile dall'accusa, che s'intreccia a quello del presunto mandante, il suocero della donna, Vincenzino Puntoriero: suo figlio, Ferdinando, si era tolto la vita, non accettando la fine del matrimonio con Maria, ritenuta responsabile morale di quel suicidio e, quindi, da punire con la morte.

Una vendetta familiare, dunque, affidata alla 'ndrangheta, che poi si sarebbe presa tutto dell'imprenditrice residente nella vicina Laureana di Borrello, la quale – elaborato il dolore per l'insano gesto del padre dei suoi tre figli – aveva invece ripreso in mano la sua azienda e iniziato una nuova relazione affettiva.

Assassini a piede libero

«Le carte parlano – dice l'avvocato Nicodemo Gentile, che unitamente al collega Antonio Cozza assiste i figli di Maria Chindamo ed il fratello Vincenzo – e raccontano che ci sono altri assassini in libertà. Gli inquirenti hanno raggiunto finora risultati importanti, auspichiamo che tutti i responsabili ne rispondano prima o poi in un'aula di giustizia».

Quella mattina del 6 maggio 2016, infatti, in località Carini di Limbadi, ad entrare in azione sarebbe stato un vero e proprio commando, forse diviso a bordo di tre autovetture: una Golf grigia, filmata a Laureana di Borrello dalle telecamere di un distributore di carburanti mentre attende e poi pedina la Dacia Duster di Maria; un fuoristrada e un'utilitaria nera, notate in strane manovre da una testimone a Limbadi, nei momenti immediatamente successivi al rapimento e forse all'omicidio.

La vettura demolita

Nessuna delle tre auto sospette è stata finora identificata, ma su una i carabinieri del Ros hanno stretto il cerchio. Emerge da un'informativa del colonnello Paolo Vincenzoni, comandante del Reparto Crimini Violenti del Ros Centrale, depositata agli atti del processo a carico di Salvatore Ascone.

Si tratta dell'utilitaria nera, compatibile per caratteristiche e colore con quella di un uomo considerato molto vicino alla famiglia del suocero di Maria Chindamo, condotta da uno sfasciacarrozze pochi giorni dopo la scomparsa. Eppure – annota l'ufficiale del Ros – l'ultimo rinnovo della polizza assicurativa risaliva «a soli due mesi circa prima della demolizione».

Il proprietario, non indagato e ritenuto allo stato solo un «soggetto d'interesse investigativo», era peraltro stato interrogato dai carabinieri dei reparti territoriali, fornendo – si legge nelle carte – una versione poco convincente sulla demolizione dell'automobile.

Quella strana chiamata

C'è però un dettaglio rilevante che accresce l'interesse degli inquirenti e lo rileva il Ros nell'analisi dei dati di traffico telefonico. Maria scompare alle 7 del 6 maggio 2016. Alle 7.01, il proprietario dell'utilitaria nera demolita pochi giorni dopo, effettuò una telefonata di 48 secondi su un'utenza che nei due anni scansionati dal reparto speciale dell'Arma contattò una sola volta. L'utenza – è riportato nell'informativa – risultava intestata alla ex suocera di Maria ma sarebbe stata in uso ad un cognato di Maria, la cui posizione in passato era stata indagata e, poi, archiviata dai magistrati.

Boia in libertà

«Sulla scomparsa di mia sorella – dice Vincenzo Chindamo, che offrì un contributo prezioso agli inquirenti – esistono molte zone d'ombra che auspico siano diradate non solo dal processo, ma anche dalla prosecuzione delle indagini. Non siamo solo noi a dirlo, ma gli stessi atti del processo che ci vede parti civili. Sulla fine di Maria esiste oggi solo un barlume di verità. Chiediamo e confidiamo che la procura e i carabinieri vadano avanti. È insopportabile il pensiero che i boia di un tribunale clandestino, da otto anni circolino impuniti e a piede libero».

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