Come non comprendere l’amarezza e il disappunto di Carlo Calenda per l’emorragia che affligge il suo partito? Tanto più quando si tratta di politici e politiche di lunga e consumata esperienza – tipo Mara Carfagna, Mariastella Gelmini, Enrico Costa – che, dunque, si suppone fossero approdati ad Azione con cognizione di causa. Motivando la loro scelta con la tesi, valida oggi più di ieri, di non riconoscersi in un centrodestra a trazione sovranista. Di più, politici che “tornano a casa” nello schieramento che avevano lasciato con clamore.

Non in FI ma, tanto peggio, indulgendo all’ipocrisia, in quella sottomarca di FI priva di qualsiasi plausibile “ragion politica” che sono i cosiddetti Moderati di Maurizio Lupi. Moderati improbabili a servizio di una destra al traino del partito post missino con il corredo di Matteo Salvini.

Matrimonio impossibile

Facciamo un passo indietro. Secondo una tesi largamente accreditata Matteo Renzi e Calenda erano destinati a dividersi in quanto due galli nel pollaio e ciò nonostante che sul merito delle policy abbiano posizioni quasi coincidenti. A motivo, si dice, del loro pierinismo, del loro ego ipertrofico, del carattere fumantino di entrambi.

C’è del vero in questa lettura e tuttavia essa meriterebbe un’ulteriore messa a punto. A dividerli, a mio avviso, è sì una ragione di natura soggettiva, ma non meramente caratteriale. Più esattamente essa attiene alla rispettiva concezione e pratica della politica. Direi alla loro “vocazione politica”.

Cosa intendere per vocazione politica? Se la si concepisce nell’accezione corrente, quella che la interpreta come abilità tattica, spirito manovriero, attitudine alle manovre di palazzo, di certo Renzi dispone di una indubbia vocazione politica. Persino in eccesso, considerata la sua inclinazione al machiavellismo (curioso che egli abbia fatto una tesi di laurea su Giorgio La Pira che bollava il machiavellismo come il peggiore dei vizi della politica).

Del resto, lo stesso Renzi rivendica con orgoglio come sua ineguagliabile specialità quella di impallinare i governi dopo averli propiziati. Una politica corsara venata di spregiudicatezza e di cinismo alla Ghino di Tacco. Ma, merita chiedersi, è questa l’accezione giusta e sana della vocazione politica?

I talenti di Calenda

Sotto questo profilo, Calenda sta all’estremo opposto. La sua rivendicata coerenza con sé stesso sconfina nell’autismo politico. Nel testardo rifiuto delle mediazioni e delle relazioni di cui pure non può non nutrirsi la politica. Un rifiuto che lo condanna all’isolamento.

Colpisce – a volte irrita, a volte intenerisce – nei confronti pubblici tv il suo affannoso ma vano sforzo teso a farsi intendere, a fuoriuscire dal monologo. È un peccato la refrattarietà del Nostro a trafficare un suo doppio talento. Il primo: la buona fede, la soggettiva etica dei comportamenti. Egli trasmette l’impressione di credere in ciò che dice e in ciò che fa. In questo assai diverso da Renzi.

Il secondo talento: la sua genuina cultura liberale, una merce rarissima nel panorama della politica nostrana; in tema di politica economica, Calenda dà l’idea di sapere ciò di cui parla. Particolarmente apprezzabile è la sua speciale sensibilità per uno dei profili più negletti ma più cruciali dell’azione politica e di governo in Italia ovvero la cura per l’implementazione delle decisioni pubbliche, il know how del buon amministratore.

Dopo anni, si è indotti a concludere che non vi sia rimedio al suddetto deficit “vocazionale”. E tuttavia sia lecito sperare – spes contra spem – che a fronte degli abbandoni – e al netto dell’opportunismo di chi lo ha usato ieri e lo molla oggi – egli finalmente si interroghi sulla sua ostinazione a praticare un velleitario terzismo dentro un sistema disciplinato da regole che lo condannano all’irrilevanza.

Un paradosso la sua ideologizzazione della terzietà, quasi una mitologia del terzismo, che si nutre di una rappresentazione caricaturale dei due opposti schieramenti. Cioè l’opposto del pragmatismo che dovrebbe indurre a fare i conti con la realtà, specie chi concepisce la politica come “azione pratica”, come ambizione e arte di governo, che non si concilia con il minoritarismo.

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