L’anno si è chiuso con la Cop28 di Dubai, ma non è stata certo una “svolta storica”. Dobbiamo ringraziare la fermezza di Teresa Ribeira, la ministra spagnola alla guida della delegazione europea, se si sono limitati i danni. Nelle conclusioni dell’accordo è impossibile trovare spunti di una strategia globale lungimirante e realista per affrontare i disastri ambientali in corso, che si susseguono e intensificano con una velocità crescente e straordinaria. In dieci anni i ghiacci dell’Artico si sono ridotti di un terzo, da 6 a 4 milioni di chilometri quadrati. 

Nel 2023 la siccità ha prosciugato il canale di Panama rendendo impossibile a periodi il passaggio dei cargo commerciali. Le inondazioni hanno devastato un milione e 500mila ettari di terreno agricolo in Nigeria, un milione in Ciad, 500mila in Camerun e Mali, le regioni più colpite in Africa. Hanno distrutto un terzo del territorio in Pakistan, secondo i dati Fao.

Difficile non notare la debolezza delle Nazioni unite, che di questa sfida globale dovrebbero essere l’Istituzione guida. Vediamo brevemente alcune di queste gravi carenze.

I problemi

La premessa è che la Cop28 si è riunita a Dubai, cuore dell’Opec, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio. È una scelta che stride con l’obiettivo di far avanzare il processo di contrasto al cambiamento climatico. Non poteva che avversare l’uscita dai combustibili fossili (come è avvenuto), per sostituirli gradualmente con fonti di energia meno inquinanti e al contempo farsi carico della sopravvivenza dei paesi più fragili, più poveri, più esposti ai disastri ambientali, seguendo un principio di solidarietà essenziale.

A Dubai infatti ha prevalso la bussola dei produttori di petrolio. Il presidente della Cop, Al Jaber, sultano degli Emirati Arabi, amministratore delegato dell’impresa di petrolio di stato (Adnoc), ha diretto con pugno di ferro il comportamento dei paesi produttori di petrolio, dell’Opec e non solo. Fino a trasmettere una lettera “riservata” ai loro capi delegazione con il divieto assoluto di firmare accordi che contrastassero con gli interessi dei petrolieri. Primo fra tutti l’uscita dai combustibili fossili, petrolio, carbone e gas.

Ed è stato questo il primo scoglio da superare per i 194 paesi presenti alla Cop28. La “svolta storica” proclamata dal sultano consisterebbe nell’aver nominato per la prima volta in una Coè “il demonio” – i combustibili fossili – quasi non ne fosse riconosciuta da decenni la responsabilità diretta sul clima attraverso le emissioni inquinanti (37 miliardi di tonnellate di CO2 nell’atmosfera nel 2023, secondo i dati Iea).

Più in concreto, il compromesso raggiunto nel concitato esito delle conclusioni finali è stato quello di accettare tutti un futuro allontanamento dai fossili, “transitoring away” (!), in opposizione alla loro graduale “eliminazione” richiesta con forza da 120 paesi guidati dall’Unione europea.

Occasioni perse

Di conseguenza è passata in secondo piano l’urgenza di intervenire per contenere l’aumento della temperatura atmosferica su valori ancora sostenibili (+1,5° C rispetto ai valori pre-rivoluzione industriale è considerato il punto di non ritorno stabilito a Glasgow nel 2021). Ma nella condizione attuale, se i Contributi nazionali di decarbonizzazione (Cnd) resteranno invariati, si rischia di raggiungere rapidamente i +2° C (dati IEA). È una condizione foriera di gravissimi danni ambientali durante la nostra stessa generazione, si sa. Ma negli impegni fissati a Dubai non ci sono vincoli temporali, gli interventi sono tutti volontari. Il diavolo, come sempre, sta nei dettagli.

Quanto agli strumenti per affrontare una transizione condivisa, è noto che la rivoluzione tecnologica in corso, unita a quella digitale, offre opportunità straordinarie di riconversione industriale, di aumento della crescita economica e di una diversa occupazione. Si pensi al ritorno di investimenti in infrastrutture per la generazione elettrica distribuita da fonti rinnovabili; all’esplosione del mercato delle auto non più a combustione interna (8 milioni di auto elettriche vendute in Cina nel 2023 – erano solo 1 milione nel 2020 –, 3 milioni in Europa, 1,6 milioni negli Stati Uniti, secondo i dati Irena); e ancora alle prospettive del nuovo nucleare dalla cui ricerca si aspetta l’assenza di scorie per la fine del secolo; alla produzione di altri vettori energetici meno inquinanti – l’idrogeno – a costi competitivi.

Si pensi al risparmio dei costi energetici per i cittadini, che si concretizza con la loro partecipazione attiva alle Comunità energetiche rinnovabili locali. Nessuno di questi impegni è stato ripreso con tempismo realistico nella Cop28.

Il passo indietro

Infine l’assetto finanziario. È indispensabile disporre di finanziamenti ingenti, non solo per attuare la transizione nei singoli stati, ma soprattutto per garantire una condizione accettabile di adattamento ai èaesi più poveri, per sostenere i più fragili colpiti da disastri ambientali drammatici.

L’ordine di grandezza è di qualche centinaio di miliardi di dollari da destinare a questi paesi (tra i 400 e i 500 miliardi nelle stime convergenti del Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, Un, Iea). Infatti nel 2015, a Parigi, l’occidente si era impegnato a versare a questo fine 100 miliardi di dollari l’anno. Solo il 20 per cento di quella somma era stato versato, nel 2021, come si riscontrò a Glasgow.

Le Nazioni unite si impegnarono allora a definire strumenti di policy con modalità scelte dai singoli stati per alimentare il Fondo globale per l’adattamento dei paesi poveri più colpiti, con i proventi straordinari ricavati da petrolio e gas. Un prezzo del carbonio che tenesse conto delle politiche pubbliche in atto negli stati fu uno degli strumenti individuati e definiti allora, richiamato nel G7, alla cui definizione ho contribuito personalmente nel gruppo di lavoro “Finanza e energia” delle Un (WG5).

Nella Cop38 se ne è persa traccia, ed è stato un passo indietro. L’abolizione dei sussidi ai combustibili fossili è un altro percorso definito a Glasgow – i sussidi espliciti ai fossili superano oggi 1 trilione di dollari (dati del Fondo monetario internazionale) dei quali la percentuale più alta è erogata dai paesi dell’Opec.

Un po’ diversa

A Dubai le ambizioni finanziarie per sostenere una transizione equa sono crollate: un fondo minimo di 700 milioni (!) è stato deciso; solo 400 milioni (!) sono stati stanziati e ancora una volta sono stati impegnati e non versati. Gli Stati Uniti hanno promesso la somma simbolica di 46 milioni di dollari, un nulla. E soprattutto, si noti, i fondi sono destinati in minima parte ai paesi poveri per sopravvivere ai disastri ambientali causati dal clima. Per lo più sono stanziati per un generico sostegno alla riconversione delle imprese produttrici di fossili del settore.

Il sultano Al Jaber ha tenuto a collocare le imprese al centro della transizione ecologica. Ma, di quali imprese si tratta? Quale il contenuto nei contratti firmati dai 2.400 lobbisti del petrolio richiamati a Dubai? Di certo hanno avuto la meglio le imprese del comparto fossile, con il ruolo centrale attribuito al sistema di cattura e stoccaggio della CO2; di nuovo, senza veri vincoli per le imprese, ma con interventi del tutto volontari. La proposta di triplicare le fonti rinnovabili al 2050, non vincolante, figura poi come una posizione formale senza alcuna garanzia di esiti certi, né monitoraggio.

Questi sono gli assi portanti della Cop28. Sembra di buon senso concludere con le parole di Jeffrey Sachs, il grande economista che da sempre affianca le Nazioni unite sul clima: «A Dubai si è celebrata una vittoria della diplomazia, certo. Forse doveva essere una diplomazia un po’ diversa».

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