L’ultima zampata della tigre assomiglia tanto a quella impressa sul retro del giubbetto che indossava una sera di trent’anni fa, appena scarcerato e già sul piede di un nuovo arresto: un capoccione dall’apparenza minacciosa ma fatto di ciniglia sintetica, solo un’effigie, innocua e anche un po’ ridicola. Ha provato a graffiare, a salvare tutta la cucciolata dalle conseguenze della sua vita mafiosa.

Ha tirato fuori dal cassetto tutto l’armamentario dei tempi che furono, il doppio gioco e la “bacchetta”, la suggestiva aneddotica della vita di dentro – roba buona solo per storici e giornalisti, e che peccato non poterla ascoltare – e qualche scarna conferma di tutto quanto è già cosa giudicata. Ci ha provato, a usare lo Stato, per regolare le questioni di casa sua. Come tanti altri prima di lui: offrendo poco o niente in cambio di tantissimo.

E non ha capito, il vecchio boss chiamato Sandokan, che non è più quel tempo, e che il suo nome di camorrista di alto rango non gli avrebbe offerto più tutele e tolleranza di quante siano state concesse al pur credibile Augusto La Torre o al killer delle stragi del 2008, Giuseppe Setola: esclusi dal programma dedicato ai collaboratori di giustizia.

Eccolo, dunque, Francesco Schiavone, quello che fu il capo del clan dei Casalesi, rispedito al mittente. Lo immaginiamo un po’ stupito per la mancanza di rispetto, offeso per l’oltraggio irriguardoso, deluso per il mancato apprezzamento della sua resa, sia pur tardiva e inadeguata. Eppure. Eppure, decidendo di consegnarsi ai magistrati, non ha fatto altro che ripetere un canovaccio antico e rodato, quello che ha garantito la pace mafiosa in Campania e in Sicilia per decenni interi. Quando i pentiti non c’erano ancora, quando le tecnologie erano roba da fumetti, le conoscenze investigative avevano una sola genesi: la confidenza. Ed era in quel tratto grigio che trovava spazio la più sofisticata strategia, quella del depistaggio, della finta verità, del movente posticcio: appunto, la bacchetta.

Fu così che nel 1991 fu ucciso Vincenzo De Falco, amatissimo dai suoi soldati, accusato dalle voci di dentro di aver agevolato con una soffiata l’arresto di Schiavone e Francesco Bidognetti. Fu così, tre anni dopo, che fu possibile, convincere Giuseppe Quadrano della necessità di ammazzare don Peppe Diana, che le solite voci descrissero come il custode delle armi di Schiavone. Fu così che si sono costruite cattive reputazioni, mascariate anticamera di tanti omicidi, in Campania come nella Sicilia di Leonardo Sciascia (Il giorno della civetta ne è un esempio magistrale). Dunque, può essere andata così anche questa volta. Con una ragione umana che non è possibile ignorare o sottacere.

Quando Francesco Schiavone, 70 anni compiuti a marzo, salute malandata e quasi ventisei anni di carcere, tutti al 41 bis, ha deciso di collaborare con i magistrati, era imminente la scarcerazione del più piccolo dei suoi figli maschi, Emanuele, testa calda sin da bambino. L’ultima volta che lo aveva abbracciato era stato proprio il giorno del suo arresto, l’11 luglio del 1998, nel sotterraneo di via Salerno dove si era rifugiato. Sapeva Schiavone-Sandokan, che a Casal di Principe erano in tanti ad aspettare che Emanuele tornasse in libertà: chi per ricostituire il clan, chi per contrastarlo, chi temendone il rientro per non dover restituire i soldi che gli erano stati affidati in via fiduciaria dalla famiglia. Il lievito madre degli appalti Rfi ma non solo.

Anche quelli investiti nelle truffe alle assicurazioni, negli acquisti alle aste fallimentari, più di recente nelle ristrutturazioni agevolate dai crediti del 110 per cento. E sarebbero queste le ragioni delle recentissime attività estorsive e ritorsive, di cui si racconta a Casal di Principe, preludio della sparatoria in piazza del Mercato alla vigilia delle elezioni e dei colpi di mitraglietta contro il portone della casa di famiglia, in via Bologna. Un affronto che in altri tempi sarebbe stato impensabile.

Francesco Schiavone sapeva che tutto questo poteva trasformarsi in una guerra di camorra e che il figlio ne sarebbe stato vittima. Consegnandosi allo Stato ha provato a salvarlo. Ma, verosimilmente, ha offerto troppo poco, ed Emanuele non ha voluto essere salvato. Ha ripiegato? Forse. O forse ha bisogno di altro tempo. O forse ancora la sua resa personale, probabilmente autentica, non coincide con le esigenze di giustizia. Perché la legge non tratta di pentimenti e di morale, ma regola, molto più laicamente, uno scambio. E a quest’appuntamento la tigre Sandokan potrebbe essere arrivata stanca, esausta e troppo tardi.

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