Avere trent’anni oggi. Avere trent’anni e pagare un affitto spropositato, fare un lavoro in cui ci si sente sfruttati, da cui si trae poca soddisfazione – pur essendo attorniati dai libri, che sono sempre stati l’unico riparo dal mondo. Avere trent’anni e non riuscire a tenere vivi i rapporti, con amici e colleghi, avere trent’anni e sentirsi, ancora e ancora, giudicati, ricusati dai propri genitori. Avere trent’anni, oggi: Loris cerca di destreggiarsi e di restare a galla, nonostante il peso che sente dentro. Giulia Caminito – finalista al premio Strega e vincitrice del Campiello con L’acqua del lago non è mai dolce, Bompiani 2021 – torna in libreria con Il male che non c’è, Bompiani 2024.

Nella vita di Loris pare che tutto sia precario, il lavoro e le relazioni, e che tutto costi troppo, l’affitto e gli esami medici.

Loris abita il precariato esistenziale della nostra generazione, quella dei trentenni: è l’esempio di una serie di incertezze con cui dobbiamo avere a che fare. Incertezze che ci pesano addosso, che sono difficilissime da sostenere, pure psicologicamente, che non ci concedono una proiezione nel futuro.

È incastrato nel presente, in qualche modo.

Per certi versi sì. Deve gestire i problemi che ha la maggior parte di noi. Dopo l’università non sa in che direzione andare e a quali porte bussare, si trova in un mondo confuso, che gira troppo velocemente e in cui pare che un posto per lui non ci sia. Condizione comune a molti trentenni.

All’elemento generazionale, però, va aggiunta l’ipocondria.

L’ipocondria è solo uno dei fuochi del romanzo. La potremmo sostituire con ansia cronica, depressione, bulimia e il risultato non cambierebbe.

Parliamo dell’ipocondria, dunque. Quand’è cominciata per lei?

A ventisei anni, ho iniziato a star male dopo un lutto pesante. La mia è stata una reazione, sindrome post traumatica da stress.

Cosa provava?

Una fortissima angoscia per tutto ciò che riguardava il mio corpo, paura di ammalarmi e di morire. Un terrore perenne. L’ipocondria, come molti altri disturbi d’ansia, non puoi quasi mai fermarla, limitarla in un angolo della tua mente. È una presenza ingombrante - Catastrofe nel romanzo.

Quant’è durata?

La fase acuta fino ai trentadue anni. Si alternavano momenti di recupero a momenti d’angoscia: quando stavo bene passavo il mio tempo a Roma e uscivo con gli amici, lavoravo, andavo al cinema; facevo cose comuni. Quando stavo male, invece, trascorrevo le giornate in camera, magari a letto o a casa dei miei genitori, ad Anguillara.

Stava male fisicamente?

Certo. Per mesi ho avuto un feroce mal di testa che non andava mai via. E poi dolori intestinali, tachicardie, svenimenti. A questi malesseri fisici si aggiungeva l’ansia di non sapere cosa stesse capitando al mio corpo e il senso di colpa dovuto al non vivere nel mondo.

“Il senso di colpa dovuto al non vivere nel mondo”.

In quei periodi facevo poco e niente: mi svegliavo, prendevo medicine, antidolorifici e rimanevo a letto o sul divano per ore intere. Il momento peggiore è stato il periodo subito successivo alla morte della persona di cui le parlavo prima: non riuscivo manco più a camminare. Nonostante tutto, però, stava per uscire La grande A – e non mi potevo fermare, avevo le presentazioni da fare. Con me vennero i miei genitori: mi accompagnarono a ogni incontro, portandomi in auto. Mi sentivo in colpa: i miei facevano sacrifici ma io non riuscivo a uscire dalla paralisi. Il rapporto con gli altri era difficile.

Ecco, a proposito. I rapporti con gli altri, in situazioni come questa?

I rapporti con gli altri esplodono, restano solo le persone capaci d’avere la giusta pazienza, di riconoscere il tuo problema. Solo in pochi sono in grado di starti vicino. Ma lo capisco, è difficile anche per chi hai attorno. Loris perde i contatti con tutti, amici e colleghi. E allontana persino Jo, la fidanzata.

A lei è successo?

Ci ho messo anni a far capire al mio ex cosa mi stesse capitando. Venivo spesso sgridata e giudicata perché non avevo le forze necessarie per fare quella o quell’altra cosa, perché non riuscivo a stare in mezzo alla gente.

Mi ha detto che l’ipocondria è insorta dopo il lutto che l’ha colpita. Prima, dunque?

Sono sempre stata molto ansiosa. Da ragazzina facevo danza e suonavo il piano, e prima di salire sul palco avevo sempre degli attacchi d’ansia. Soffrivo anche d’insonnia, e per un lungo periodo ho dormito poche ore a notte. La paura di una malattia era sempre dietro l’angolo.

Difatti, l’ipocondria tendenzialmente ha più a che fare con la paura di ammalarsi che di morire – per me è così, quantomeno.

Ed era così. La persona che è morta anni fa, il lutto di cui le parlavo, era giovanissima ed è morta dopo una malattia davvero logorante. Che una persona così giovane, in salute possa ammalarsi, d’un tratto e senza che niente si possa fare, è qualcosa che ancora oggi fatico molto a elaborare. Che debba pure soffrire tanto e per tanto tempo, poi, è assurdo.

Questo ci porta al tema del fine vita.

Per me è fondamentale. Che nella nostra società scegliere di morire – in determinate circostanze, per determinate ragioni – non sia plausibile per me è molto triste. Poter morire in maniera dignitosa dovrebbe essere un diritto, e invece no: le malattie dobbiamo sobbarcarcele fino all’ultimo, dobbiamo soccombere dopo avere sofferto. Perché dobbiamo aspettare di essere allo stremo, per potercene andare? Fa parte di una formazione, di una mentalità ipercattolica. Io credo sia disumano.

Caminito, tornando a lei. Oggi qual è la situazione?

Sto meglio. Prendo dei farmaci, sto facendo un percorso di analisi.

La paura del futuro resta?

Un po’ sì.

La paura di ammalarsi, morire?

Un po’ sì.

Crede in Dio?

No. Sarebbe bello, però no.

Prima abbiamo menzionato la paralisi di Loris: lui davanti alla vita sembra non poter nulla. È come se si trovasse in una sorta di gabbia e una gabbia nel romanzo c’è: la voliera.

Sì, il nonno di Loris la costruisce nell’orto della casa in campagna. E lì, poi, c’infilano dei piccioni. Una notte, però, uno degli uccelli ne uccide un altro. Decidono di far uscire il piccione violento, liberarlo, mandarlo via per evitare che capiti ancora, ma quello non se ne va: una volta fuori dalla gabbia, rimane nei paraggi e continua a volarle attorno. Nei giorni seguenti resta lì, a girare attorno alla gabbia. Non sa dove andare: quella voliera è l’unico posto in cui è certo di poter sopravvivere.

Un’immagine importante: il prigioniero torna in cella liberamente.

Sì, ed è una storia vera. Accadde quand’ero bambina.

Lo facciamo anche noi?

Tornare alle nostre gabbie? Certo: le relazioni tossiche sono un esempio piuttosto chiaro. Pur di sentirci protetti sacrifichiamo persino la libertà.

I suoi spazi rassicuranti diventati trappole?

Oggi non ne ho, però in passato sì. Casa dei miei genitori ad Anguillara; ricordo che ci andavo quando stavo male ma poi avevo la sensazione di essere incastrata lì. Cercavo di tornare a un passato confortevole, all’età, quella dell’infanzia, in cui lì ero stata felice, ma non poteva funzionare.

Caminito, lei ha dedicato Il male che non c’è a suo nonno. Abbiamo menzionato quello di Loris, nel libro è importante, e mi ha appena detto che la storia della voliera è vera. Allora personaggio e persona coincidono?

Sì, e molti dettagli che racconto nel libro sono reali: la casa in campagna e la voliera, Gelo e la figlia Giulia, chiamata così in onore di mio nonno.

Che persona era?

Un uomo eccezionale. Un grande trasformista, qualità che temo di non aver ereditato, si reinventava di continuo, aveva sempre passioni nuove.

Avevate un bel rapporto?

Meraviglioso. Era molto dedito a me. I miei lavoravano, e così passavo tanto tempo con lui.

Un episodio che vi riguarda e che non ha inserito nel romanzo?

Era il mio compleanno, ero piccola. In quel periodo girava la pubblicità del lungo filone di pane e Nutella su cui venivano allineate le candeline che i bambini spegnevano per il compleanno. Mio nonno chiese apposta al fornaio di preparare un filone altrettanto lungo e lui, lì in casa, costruì una pala di legno per prenderlo, quel filone. Fu un regalo bellissimo.

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