Il lavoro che più era piaciuto allo scrittore uruguagio Juan Carlos Onetti – tra i tanti intrapresi e lasciati – era quello di «vendedor de entradas en el Estadio del Nacional de Fútbol» perché vendere i biglietti per una partita di calcio significava farsi promotore della speranza, promettere stupore e assicurare novanta minuti di distrazione dalla morte, dalla dittatura e da altre durezze inutili.

Juan Villoro – scrittore messicano equivalente letterario dell’attaccante Hugo Sánchez, capriole comprese – dice che Onetti reinventò l’arte di respirare, da grande fumatore quale era, per dire che fu uno dei pochi sovvertitori dell’ordine della vita, per capirlo basta leggerlo. E forse per questo continuiamo a leggere gli scrittori dell’America latina: perché reinventano l’arte di respirare (es: Respirazione artificiale di Ricardo Piglia).

Nel fútbol hanno inventato i gesti e poi le parole per raccontarli. Nella cancha i calciatori sudamericani si muovevano diversamente e poi sulle tribune c’erano gli scrittori e i giornalisti sudamericani che battezzavano, cantavano, spiegavano quei gesti, così nascevano: rabona, taco, caño, gambeta, chilena e altre meraviglie, concentrandosi sui virtuosismi, non più promesse di stupore ma gesti che stupiscono.

E non è un caso che Eduardo Galeano – altro scrittore uruguagio – mettesse in connessione Onetti – un patriarca della grande letteratura mondiale – con Obdulio Varela, capitano dell’Uruguay che si fece assassino del giorno di festa brasiliano guidando la sua squadra alla vittoria al Maracanà a Rio de Janeiro nella finale mondiale del 1950 contro ogni previsione, pronostico, evidenza.

Divenne l’Hiroshima calcistica del Brasile, dalla quale poi nacque Pelé che vedendo piangere tutti promise a suo padre di vincere un mondiale, poi ne vinse tre, esagerando e riscrivendo il Sertão del dolore calcistico attraverso un grande monologo come solo João Guimarães Rosa. Proprio perché grandi scrittori e grandi calciatori si scambiano i ruoli di tramaioli annodando gesti e parole, imprese e romanzi, gol e poesia.

Galeano aveva conosciuto Varela ed era stato allievo di Onetti e col tempo aveva capito che stavano al mondo allo stesso modo: con la capacità di dominarlo, opponendosi. I due scrivevano il silenzio.

La nostalgia assoluta

Oggi è difficile, anzi impossibile, trovare un calciatore come Varela e uno scrittore come Onetti, per questo leggiamo ancora quelli come lui e cerchiamo nei libri storie che non troviamo più sui campi. Nessuna partita può essere come quelle che racconta Osvaldo Soriano, «forse commetto l’errore di vestire i perdenti con i panni dei sogni», che ha pure riscritto la storia dei rigori raccontando quello più lungo del mondo.

Perché oggi nessuno scrittore in esilio può ascoltare una partita del San Lorenzo al telefono stando a Parigi dopo aver sopportato sette anni senza poter sapere che cosa stava facendo la sua squadra. Oggi le partite non si ascoltano al telefono, ma si vedono sui telefoni.

Ecco, da quel mendicare una parola che riassumesse un gesto, da una voce che scriveva il campo nasceva Soriano e il bisogno di un altro racconto del calcio. Perché Soriano, Galeano e gli altri convertivano tutto o quasi quello che non avevano visto, ma che avevano desiderato di vedere, in letteratura allo stato vivo, anche quando non scrivevano, anche quando non era destinata alla pagina ma solo a una conversazione notturna in un bar dopo troppi whisky. Il calcio era il grande pretesto. La nostalgia assoluta per quello che non erano stati o non erano riusciti a continuare ad essere.

Invenzioni credibili

A Soriano o a Roberto Fontanarrosa, altro scrittore argentino, interessava più continuare a segnare che a scrivere, più essere l’idolo di una curva che quello di una fiera letteraria o di una università, e l’unica classifica che davvero li faceva impazzire era quella del capocannoniere non quella dei libri venduti.

Non è un caso che i tifosi del Rosario Central stessero sotto le finestre di Fontanarrosa nei suoi ultimi mesi di vita a cantargli cori come se fosse stato davvero il capitano della squadra, in realtà era stato molto di più, era stato il re-inventore di partite giocate e l’inventore di partite mai giocate ma capaci di generare nostalgia per chi non le aveva potute vedere e doveva accontentarsi di leggerle.

Per questo siamo ancora qua a leggerli. Per la credibilità delle loro invenzioni. Persino un troppo raffinato come Roberto Bolaño – che tifava per le squadre fantasma, per quelle che retrocedendo scomparivano – ha un racconto sul calcio così incredibile da essere oltrevero: Buba, calciatore africano del Barcellona – prima che arrivasse Samuel Eto’o – «un pazzo, che soffriva molto» che risolleva i compagni Acevedo – voce narrante, ala sinistra dalla vita breve, calcisticamente parlando – ed Herrera: rendendo credibile la vittoria della Liga e della Champions League attraverso un rito di magia nera o bianca o chissà che altro e dove sembra possibile anche che la Juventus vinca la Champions due volte di seguito perché ci gioca Buba.

Perché Bolaño era capace di risolvere con un rigo una partita intera o di inventarne una inesistente: sapeva che era come innamorarsi cento volte della stessa ragazza e – da fantasma – diventare selezionatore di una nazionale di “selvaggi poeti” convocati in tutta la sua vasta opera come nello spettacolo-conferenza andato in scena a Mantova qualche giorno fa e scritto dal poeta e drammaturgo Igor Esposito che ha tradotto e ripescato un vagocampista come Bruno Montané Krebs che mai era stato portato nella cancha della nostra lingua.

O come il gran lavoro che sta facendo lo scrittore Fabrizio Gabrielli che per Sur sta ritraducendo l’opera di Eduardo Galeano – prima Chiuso per calcio e ora Il libro degli abbracci, in precedenza la traduzione de Le vene aperte dell’America Latina era stata di Gabriella Lapasini – che si diceva «sentipensante» per sottolineare l’ascolto collegato al pensiero e il cuore annodato al cervello, una espressione dei pescatori colombiani che apparve a Galeano come un linguaggio che dice la verità, puro come il gesto nel campo, sentire e pensare nello stesso secondo: in pratica quello che faceva Maradona in modo più veloce e poetico di tutti in campo e fuori. Emozione e ragione in vertigine.

Lasciarsi andare

Ed è quello che prova a fare nel Libro degli abbracci, portare il mondo nella brevità, metterlo in un gesto, quindi il sentire preceduto dal pensare. È quello che prova a fare anche lo scrittore argentino Martín Caparrós prima scrivendo un libro sul suo amore per il Boca Junior – Boquita – e poi un romanzo sulla grandezza dei “nemici” del River Plate – Todo por la patria.

Eduardo Sacheri che molti conoscono per El secreto de sus ojos film tratto da un suo romanzo dal regista Juan José Campanella, che vinse l’Oscar, e insieme hanno anche tratto – da un racconto di Fontanarrosa, Memorias de un wing derecho, sì calcio e letteratura sudamericana y cinema sono un quadro di Escher – Metegol un film d’animazione dove i calciatori di un biliardino escono dalla cancha del calcio balilla e si avventurano in una partita di calcio per salvare la memoria del fútbol. Si ride moltissimo, perché ci sono tutti i tic dei calciatori.

Ma soprattutto Sacheri ha scritto un libro di racconti, Esperándolo a Tito y otros cuentos de fútbol, dove c’ è Me van a tener que disculpar – Maradona che si discolpa per i due gol all’Inghilterra – che potrebbe essere il manifesto del perché leggiamo ancora e tanto gli scrittori sudamericani e in particolare quelli che scrivono di calcio. Perché se Baruch Spinoza – pensatore olandese inferiore solo al filosofo Johan Cruijff – nell’Etica dice che il controllo dei sentimenti è la maggior virtù dell’anima, gli scrittori sudamericani sovvertono sistematicamente questa tesi, lasciandosi andare senza calcoli.

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