Sono gli anni zero, non so indicare esattamente quando. Ricevo una telefonata da mia madre, dice che a un programma di Santoro ha visto un personaggio particolare che fa anche musica. Le è rimasto proprio impresso, aveva un secondo nome e parlava di cavalli, pareva un eremita.

Le chiedo se per caso non intenda Giovanni Lindo Ferretti. Lei esclama che sì, era proprio lui. Le dico «quando torno ti faccio un cd con i miei pezzi preferiti». La memoria è una cosa che a un certo punto diventa onirica e dunque io non so dove fossi e quando sia tornata. So che il cd per lei l’ho fatto sul serio. Da allora mia madre è diventata una fan dei CCCP.

Mia nonna

Mia nonna pregava molto. Moltissimo. Quando attorno ai tre anni sono arrivata in ospedale in fin di vita (soporosa, diceva la cartella clinica) a causa di un’infezione alle vie urinarie mal diagnosticata, le preghiere di mia nonna hanno raggiunto un inedito livello di professionismo. In altre parole, la madre di mia madre, mentre ero affidata alle cure del personale medico che mi ha effettivamente curata e guarita, ha deciso di votarmi a una santa.

Ha pure inviato i miei dati anagrafici al monastero. È così che ho vinto un abbonamento a vita a un periodico che si chiama Dalle api alle rose. A riguardo, da qualche parte, mi è capitato di scrivere: «ritengo che sia rescindibile solo con il sistema del decesso».

Santa Rita

Santa Rita ha le api e ha le Rose. Santa Rita nei santini che la ritraggono ha il volto di Isabella Rossellini e non credo corrisponda a ciò che è stata nella realtà (ma a noi, quando dobbiamo guarire, della realtà cosa importa?). Santa Rita per tutti è la Santa degli Impossibili. Per me è Avvocata dei Casi Disperati, perché così c’è scritto sul vecchissimo santino che da anni tengo nel portafoglio.

Rita nasce nel 1381 e muore nel 1457 a Cascia, in provincia di Perugia. A Cascia ci vado solo una volta, decenne, trascinata da una zia d’America. Mi porta fino al cospetto della Madre Badessa, la quale Madre Badessa da dietro una grata mi chiede «sei felice di essere guarita?», e io dico «sì», e poi tornata a casa chiedo a mia madre «ma che domanda è?», e mia madre dice più o meno: «Di questo non parlare con nonna».

Da quel che mi risulta Rita vuole entrare in convento, prendere i voti, non saperne niente delle cose maritali. Invece la sposano per forza a un uomo che le impone due figli. Muore il marito, muoiono i figli. Rita, è forse il caso di ipotizzare, sospira di sollievo al punto da levarsi in cielo. Si dice che i suoi santi protettori (Sant’Agostino, San Giovanni Battista, Nicola da Tolentino) la facciano volare fin dentro le mura del convento agostiniano che l’aveva in precedenza rifiutata. Da quel momento per Rita le agognate porte della clausura sono paradossalmente aperte.

Da secoli santa Rita non ha mai smesso di essere invocata da chi sta attraversando i drammi più estremi e, di voto in voto, l’anagrafe dei suoi affezionati si è fatta enorme. Io stessa, per quanto ritenga di essere stata guarita dal sistema sanitario e da chi è riuscito, attraverso la pratica della scienza, a salvarmi le terga, so che non intendo separarmi dal santino della mia santa-urologa.

Santa Rita è stata narrata da Daria Bignardi nel suo romanzo Santa degli impossibili (2015, Mondadori). Santa Rita è stata illustrata e raccontata in chiave fantastica da Dino Buzzati nel 1971 con I Miracoli di Val Morel. Buzzati, già molto malato, dedica gli ultimi mesi e le ultime forze a immaginare le gesta di una Rita-Avenger che affronta mostri marini e navicelle spaziali e formiche del cervello, che compie miracoli da super eroina Marvel in provincia di Belluno.

Uno dei racconti si intitola Il Diavolo Porcospino («Il fatto appare singolare perché in nessun trattato di demonologia il porcospino risulta essere stato incarnazione del Diavolo»). Nell’illustrazione-ex voto una Santa Rita volante si getta contro un porcospino enorme e oscuro, dagli occhi vuoti e sottili, che pare avere tutta l’intenzione di attaccare un inerme parroco sotto gli archi a sesto acuto dei portici di un santuario.

Anche se nel 2012, in un post pubblicato sul blog di Leonardo Tondelli, ho letto che in Brasile c’è una statua di Santa Rita alta 56 metri, non ho ancora esattamente capito che miracoli abbia compiuto in vita. Da bambina le api le hanno versato miele in bocca. Da moribonda ha fatto sbocciare una rosa rossa nella neve. Per decenni ha avuto una spina della corona di Cristo infilata e sanguinante in fronte. Nella santità c’è sempre qualcosa di sensuale.

Di nuovo mia madre

Questo episodio lo ricordo meglio perché è recente. Quando mia madre mi telefona lei è in Veneto e io sono a Roma. Mi telefona e io tremo perché so che cosa sta per chiedermi. Mia madre dice: «Hai visto che i CCCP fanno un tour in Italia? Tieni d’occhio le date, mi raccomando».

Dopo aver chiuso la chiamata farò una rapida ricerca chiedendomi quale possa essere la situazione più adatta a portare mia madre a vedere quella che ormai possiamo definire la sua band punk preferita, pur non essendo lei mai stata una seguace del punk. Decido per Bologna, Piazza Maggiore, 21 maggio.

Di nuovo Santa Rita

Mesi fa, sarà stato febbraio, avevo promesso a Domani un racconto su Santa Rita da Cascia dichiarando che lo avrei scritto direttamente da Cascia, compiendo una sorta di pellegrinaggio in età matura. Ho dichiarato il falso, ho fallito, sono uscita dalla retta via. Il fatto può essere interpretato a piacimento.

Resta che a Cascia non ci sono mai andata, perché sono un’incapace alla guida, e raggiungere i centri minori d’Italia senza automobile è una croce che non voglio portare.

Le rose e l’acqua santa

«Aprite bene le rose, mi raccomando, appoggiatele sul tavolo bene aperte, no non così, non si devono toccare l’una con l’altra, ecco così va bene» dice il prete un attimo prima di inondare di acqua santa sia le rose multicolore che la piccola folla radunata al suo cospetto. Mentre ci asperge, raccogliendo le offerte libere, si raccomanda «dite bene dei vostri fratelli, lo so che è difficile, ma provateci, o vanifichiamo tutta la benedizione di Dio». Per qualche ragione mi sento chiamata in causa, mi faccio un’analisi di coscienza istantanea e ho la tentazione di pensare che forse sta parlando proprio con me. Dev’essere così che funziona qualsiasi forma di devozione. Ma io non sono una devota della chiesa degli uomini, sono un’intrusa che si porta appresso il santino stropicciato di una donna.

Mia madre prende le rose e valutiamo di essere pronte per il pranzo. Usciamo dal Santuario di Santa Rita in San Giacomo, a Bologna. È il 22 maggio e il 22 maggio è il giorno in cui l’Avvocata dei Casi Disperati viene celebrata dal calendario. Da brava seguace miscredente, neanche lo sapevo. Una cara amica che ha vissuto a lungo in questa città ha colmato questa lacuna, saputo della nostra strana gita di famiglia mi ha scritto: «La mattina del 22 devi assolutamente andare alla benedizione delle rose».

Uscendo dal chiostro pieno di banchetti foderati di rose a un euro e cinquanta l’una chiedo a mia madre come si sente a livello di acido lattico. Mi dice che pensava peggio. Sospiro di sollievo ma per fortuna non abbastanza da levarmi in cielo. La sera prima ho quasi pensato di perderla, inghiottita da una marea umana che pogava sulle note di Rozzemilia («E tutti sono onesti/e tutti sono pari/e tutti hanno le palle democratiche e popolari»).

ANSA

Il rito e la norma

I CCCP – Fedeli alla Linea nascono a Berlino Ovest quando due ragazzi della provincia di Reggio Emilia si incontrano a Berlino. Esistono dal 1982 al 1990. Poi non esistono più. Esisteranno i CSI e i PGR. Esisteranno i progetti solisti, i libri e le polemiche così come esisteranno i silenzi e le ellissi. I CCCP tornano a esistere nel 2023. All’alba del 2024 si esibiscono in tre date sold-out nella loro Berlino. Subito dopo viene annunciato il tour italiano.

Quando siamo in Piazza Maggiore, con il sole calato sullo sguardo severo di San Petronio, e Massimo Zamboni, Giovanni Lindo Ferretti, Annarella e Fatur si manifestano, l’impressione è che in fondo nessuno può credere che ci siamo sul serio, che ci siano loro e che ci siamo anche noi.

Il momento in cui ci si presenta a un concerto è il momento in cui è opportuno iniziare a pensare alla prima persona plurale. Quello in cui è necessario immaginare un io collettivo in cui si ha il dovere di rispettare e non calpestare nemmeno le parti più intollerabili del sé.

È una questione di sopravvivenza. Sarebbe bello, penso a volte, se i codici non scritti dei pellegrinaggi ai live fossero riproducibili nel quotidiano. Poi ricordo che mal tollero pure chi respira troppo forte nel mio stesso vagone del treno. Quel che accade nel rito non ha a che fare con la norma. E anche per questo non è raccontabile, non è fino in fondo traducibile in una narrazione.

Tutto quel che è accaduto nel rito di Piazza Maggiore si nasconde – imprendibile – in un punto tra Annarella Benemerita Soubrette che declama «prima era troppo presto, adesso è troppo tardi, ma questo è il nostro tempo» e Annarella che porge una sigaretta a Ferretti guardandolo aspirare con voluttà; in Massimo Zamboni che lascia la chitarra per prendere il microfono e cantare Kebab Träume dei Daf con un volto felice, una palpabile allegria di naufragi; in Fatur Artista del popolo vestito dei rottami del nostro tempo che a lungo ci sopravvivranno.

Ancora in Fatur e Annarella che danzano attorno a un feticcio semi-umano, drappeggiato di rosso, infilzato come un San Sebastiano. Danzano e le ombre si stagliano sui palazzi che perimetrano la piazza, mentre il lungo canto di Maciste contro tutti ha viaggiato dal 1990 per arrivare fino a qui.

È tornato in questa sera a celebrare l’infinito tramonto che stiamo attraversando («Sembra sole nascente/il sole d’Occidente/sembra sole che nasce/questo sole calante»).

Mia madre – nel frattempo debitamente messa al sicuro dalla folla – sorride allo sventolare di una bandiera rossa. Santa Rita – con la sua spina in fronte – nella mia borsa riposa in attesa della prossima missione.

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