Un paio di anni fa circolò in rete un meme anonimo su cui mi capitò di indugiare più del solito per i motivi che ora esporrò. Nell’immagine vediamo una giovane donna con lunghi e soffici capelli biondi (è una notissima imprenditrice-influencer italiana) che, assumendo la posa classica di chi si sta scattando un selfie, tiene nella mano sinistra, come se fosse uno smartphone, una copia del celebre saggio di Walter Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.

La copertina del libro, ben leggibile, è rivolta verso l’osservatore, il quale vi riconosce, solo in parte occultata dalle dita affusolate della giovane, un’immagine della Gioconda leonardesca nella sua classica collocazione museale.

Nel rivolgere uno sguardo piuttosto neutrale ma sicuramente non ostile verso il dorso del libretto – cioè verso lo schermo dello smartphone, se si trattasse davvero del selfie evocato dall’immagine – la giovane mostra la lingua senza che tuttavia ciò influisca in qualsiasi modo sulla sua espressione, che resta svagata e astratta, o sulla levigata e luminosa pelle del suo viso, che resta disteso e sereno.

Del meme – che per definizione è una forma riusabile – si conoscono altre versioni nelle quali la giovane donna tiene in mano Il delitto perfetto di Jean Baudrillard oppure La società dello spettacolo di Guy Debord.

Un’immagine complessa

L’immagine è divertente e ingegnosa, non c’è dubbio, ma non ci sarebbe anche dell’altro? Non presenterebbe, a conti fatti, una complessità superiore a quella che si coglie al primo sguardo?

Verrebbe da chiedersi, ad esempio, che tipo di descrizione linguistica ne farebbe uno di quei sistemi di intelligenza artificiale che oggi sono in grado non solo di riconoscere le immagini ma anche di rispondere in modo adeguato a domande sui loro contenuti e sulle loro implicazioni.

Voglio dire: quali sarebbero i tratti che l’algoritmo giudicherebbe pertinenti e quali invece trascurerebbe perché la sua “competenza” non è (ancora) in grado di considerarli significativi?

L’analisi

C’è da essere certi, per contro, che un utente abituale del web, nell’incontrarla, ridurrebbe al minimo indispensabile le operazioni di riconoscimento e attiverebbe il sistema di relazioni che l’immagine gli mette sotto gli occhi fermandosi, con ogni probabilità, solo nel momento in cui le intenzioni comunicative del sistema stesso gli sembrassero abbastanza chiare da passare oltre.

C’è anche il caso, tuttavia – ed è quel che è capitato a me – che il meme possa farsi giudicare meritevole di un’ispezione più analitica. O anche, e senza contraddizione, che la composizione alquanto enigmatica dell’immagine possa incoraggiare qualcuno a fare una serie più o meno audace di ipotesi e inferenze.

Come del resto accade di regola per i testi – verbali, iconici o di altro tipo – che concedono il benché minimo appiglio all’attività di integrazione semiotica, anche di tipo congetturale, nella quale eccelle l’immaginazione umana (e molto meno quella artificiale).

Soffermiamoci un attimo, allora, sui due ordini di ispezione, quello analitico e quello inferenziale, sollecitati dal nostro meme, nell’idea che questo tipo di operazione possa definirsi, con qualche buona ragione, come “leggere un’immagine”, cioè come l’attivazione di processi per certi aspetti analoghi a quelli che il nostro cervello riserva alla lettura di testi scritti.

E che questo tipo di performance, strettamente unito a quello che consiste nel modificare un meme – o “sovrascriverlo” se volete – sia una pratica ormai così ampiamente diffusa in rete da averci addestrati, in modo inavvertito, all’esercizio ormai massiccio di una competenza molto specifica: quella di lettori, e di autori, di testi sincretici, cioè costituiti da diversi intrecci di immagini e di parole (ma anche di molte altre componenti, come vedremo nel dettaglio in seguito).

Cercare evidenze

Nella fattispecie – ed ecco la prima evidenza dell’ispezione analitica – l’immagine (o meglio: il suo intimo regime sincretico) ci indirizza esplicitamente verso l’attivazione della competenza di cui ho appena parlato, visto che la giovane donna del ritratto reca nella mano sinistra un testo molto famoso il cui titolo qualcuno potrebbe aver semplicemente riconosciuto anche senza dover compitare per intero la sequenza dei caratteri che lo compongono.

Ma perché l’aureo libretto di Benjamin viene tenuto in mano in quel modo bizzarro, che esibisce e insieme dissimula? Richiama e insieme disdice l’azione comunissima di farsi un selfie?

La seconda evidenza, dobbiamo concluderne, è di carattere negativo: ciò che la signora sta facendo, benché ne stia mimando la postura canonica, non è affatto un selfie – anche se l’intera immagine potrebbe benissimo esserne il risultato, visto che lo smartphone potrebbe trovarsi nella sua mano destra (che non vediamo) e che il punto di ripresa è collocato leggermente in basso.

La sua espressione, tuttavia, ci informa (ma qui siamo già nell’ordine delle congetture) che se al posto del testo di Benjamin la signora brandisse nella mano sinistra uno smartphone, come ci viene energicamente suggerito, l’uso che ne starebbe facendo consisterebbe nel controllare con un certo distacco, come in uno specchio, qualcosa del proprio volto e, nella fattispecie, la lingua.

Che dunque non è affatto una “linguaccia”, realizzerebbe con un’ulteriore negazione il nostro lettore di immagini, dopo averla comparata tra sé e sé con qualche altra popolare performance dello stesso tipo di sberleffo: forse quella irridente di Albert Einstein o quella sguaiata poi divenuta un logo dei Rolling Stones.

Registriamo un ultimo aspetto della procedura che ho definito analitica: per effettuarla il nostro lettore di immagini ha avuto bisogno di tempo e dunque non è “passato oltre”, infrangendo almeno per una volta le deprecate “regole” del web, delle quali si dice che svierebbero la nostra attenzione da ogni approfondimento e da ogni concentrazione consegnandoci alla centrifuga del multitasking. Certo, in questo indugiare è stato favorito dal fatto che si tratta di un’immagine fissa.

Ma è anche vero che se si fosse trattato di una gif o di un breve filmato avrebbe potuto mandarli in loop o anche operare un fermo immagine per studiarne meglio la composizione. Non intendo cavarmela così facilmente con la questione dei tempi di lettura delle immagini sincretiche del web, e anzi più avanti affronterò la questione tematicamente e nel quinto capitolo farò almeno un esempio che va in una direzione molto diversa.

L’atto interpretativo 

Voglio solo suggerire che un meme all’apparenza semplice è in grado di reclamare attenzione e di attivare procedure interpretative complesse e perfino polisense, come vedremo subito passando al piano delle inferenze e delle congetture.

È il titolo del libro, indubbiamente, a inaugurare questo movimento interpretativo. Soprattutto nel lavorio mentale (o, più precisamente, nel discorso interno) di chi lo abbia letto, ma anche di chi ne abbia solo sentito parlare, trattandosi di un testo la cui tesi di fondo – vale a dire che la riproducibilità tecnica ha esercitato un effetto desacralizzante (il celebre “decadimento dell’aura”) sull’esperienza delle opere d’arte – è davvero notissima

. Se le cose stanno così, il nostro lettore di immagini si sta ora chiedendo a che tipo di effetto imputabile alle tecnologie digitali stia facendo allusione il meme.

È forse l’imprenditrice-influencer a voler richiamare l’attenzione sui “valori espositivi” dell’immagine (come li chiamava Benjamin) di cui ella stessa sarebbe un esempio eminente?
Quella lingua in bella mostra ci sta forse suggerendo che pur avendo del tutto rinunciato a ogni “aura” sacrale e, anzi, sapendosi in debito profondo con la natura stessa del medium digitale, la congruenza del suo volto con un modello di bellezza accreditato resta non solo indubbia ma può persino aspirare allo statuto canonico che in passato fu attribuito alle opere d’arte?

«Volete sapere che cosa ne è stato dei canoni della bellezza nell’epoca della comunicazione digitale? Ecco, guardate questa immagine e ve ne farete un’idea». L’inferenza è del tutto legittima, anche se satura solo in piccola parte il carattere polisemico del meme.

Proporrei dunque di mantenerla, aggiungendovi però una congettura (più selettiva, lo riconosco, dal punto di vista del peso specifico che vi assume una conoscenza diretta del saggio benjaminiano).

È vero – darebbe a intendere la nostra immagine sincretica –, nel lavoro di integrazione immaginativa attualmente in progress voi state riferendo l’esemplarità dell’immagine alla questione dei nuovi canoni di bellezza introdotti e nutriti dal regime della comunicazione digitale: una bellezza patinata e superficiale, priva di ogni sacralità e dunque alla portata di chiunque ne accetti senza tante storie le regole, peraltro assai permissive e indulgenti verso ogni trasgressione.


Il testo è un estratto da Immagini sincretiche. Leggere e scrivere in digitale, Meltemi, 2024

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