Lungo il Danubio, a poche centinaia di metri dal parlamento di Budapest, sessanta paia di scarpe di ferro ricordano uno dei più grandi drammi della Seconda guerra mondiale: lo sterminio degli ebrei ungheresi. Il memoriale, opera del regista Can Togay e dello scultore Gyula Pauer, rappresenta l’ultimo atto della Shoah nella nazione magiara: la fucilazione, da parte dei miliziani delle «Croci frecciate», di migliaia di ebrei sulle rive del fiume e l’abbandono dei loro corpi nell’acqua, quando ormai la capitale era accerchiata dai sovietici e per i nazisti la sorte era segnata.

Ma questo «ultimo atto» fu un piccolo granello di ciò che avvenne mesi prima, il tentativo di sterminio industriale e sistematico da attuare in pochi mesi, che divorò nei crematori e nelle fosse ardenti di Auschwitz 400mila persone da fine aprile a fine luglio 1944, esattamente ottant’anni fa.

Ma perché, a distanza di così tanto tempo, è necessario ricordare questo avvenimento storico? In primis perché dimostra la specificità della Shoah, il suo carattere di «genocidio estremo», in secondo luogo fa luce sulla portata europea del fenomeno e sul ruolo cruciale dei collaborazionismi.

A Budapest in Szabadság tér, piazza della Libertà, nel 2014 è stato inaugurato, per volere del primo ministro Viktor Orbán, il “Memoriale per le vittime dell’occupazione tedesca”. Il monumento che raffigura l’arcangelo Gabriele, simbolo dell’Ungheria, aggredito dall'aquila imperiale tedesca, è stato subito contestato.

Eclissava cioè le enormi responsabilità dei governi dell'ammiraglio Miklós Horthy prima e delle Croci frecciate di Ferenc Szálasi poi, relegando ai soli nazisti tedeschi il ruolo della Shoah. Per capire cosa accadde veramente è necessario tornare indietro al 1943.

Terrore bianco

L’Ungheria allora era alleata della Germania nazista ed era saldamente governata dall’ammiraglio Miklós Horthy e reggente della corona magiara. Horthy era sicuramente un personaggio autoritario: aveva preso il potere nel 1920, instaurando il «Terrore bianco», caratterizzato da caccia agli oppositori, torture, esecuzioni sommarie e pogrom. Gli ebrei divennero così subito bersaglio delle politiche discriminatorie dei governi del reggente.

Nel 1938 il parlamento aveva approvato la prima legge antiebraica, concepita come mezzo di espulsione, in una nazione dove gli ebrei erano tanti e ben integrati. La legge infatti voleva ridurre al 20 per cento il numero di ebrei in ogni impresa commerciale, nella stampa, tra i medici, gli ingegneri e gli avvocati.

Secondo i dati del censimento della popolazione del 1930, in Ungheria vivevano 444.567 ebrei, il 5,1 per cento della popolazione complessiva. In certi campi della vita economica ricoprivano posizioni apicali: il 55,2 per cento dei medici, il 30,4 per cento degli ingegneri, il 49,2 per cento degli avvocati erano ebrei. Ma comunque, in quel momento, furono risparmiati dalle deportazioni.

Potenza sterminatrice

Torniamo al 1943. Le sorti della guerra per l’Asse erano segnate. Il 19 agosto, ancora prima che l’Italia firmasse l’armistizio, il primo ministro ungherese Miklós Kallay trasmise un discorso in cui sosteneva la necessità della pace in Ungheria. Nel frattempo gli ebrei erano già obbligati a prestare servizio nei «battaglioni di lavoro» al fronte: con le sconfitte del 1943 ne morirono oltre 20mila.

Hitler, temendo che l’Ungheria abbandonasse l'alleanza con la Germania, impose a Horthy di licenziare Kallay che, effettivamente, aveva iniziato a prendere contatti con gli Alleati. Siamo al 16 marzo 1944. Due giorni dopo le truppe tedesche iniziarono l’occupazione militare del paese. Per la popolazione ebraica ungherese era l’inizio dell’incubo.

Kallay fu arrestato e al suo posto divenne primo ministro il filo tedesco e antisemita Döme Sztójay. Un importante «cambio della guardia» avvenne anche nell’universo concentrazionario nazista: per preparare lo sterminio degli ebrei ungheresi, ad Auschwitz tornò l’ex comandante Rudolf Höss, allontanato dal campo nel novembre dell’anno precedente nell’ambito di un’inchiesta interna alle Ss.

Höss, padre dello sterminio industriale tramite il gas Zyklon B, venne nominato «comandante anziano del presidio» e si adoperò per portare il campo alla massima potenza sterminatrice.

Rastrellamenti

Ebrei ungheresi in arrivo a Birkenau nella primavera del 1944

Intanto a Budapest aveva fatto la sua comparsa l’esperto di questioni ebraiche Adolf Eichmann. Eichmann, che soggiornava al Majestic Hotel, si diede da fare per organizzare le deportazioni. Per evitare la ribellione delle sue vittime, incontrò i membri del Consiglio ebraico di Budapest rassicurandoli che avrebbero potuto dormire sonni tranquilli.

Ad aprile iniziarono già i rastrellamenti: la gendarmeria ungherese eseguiva brillantemente gli ordini dei tedeschi e Eichmann ebbe la possibilità di ingannare le sue vittime facendo credere loro che la responsabilità degli arresti era di László Endre, segretario di Stato al Ministero degli Interni nel Governo Sztójay.

In effetti Endre era un fanatico esecutore degli ordini nazisti e membro del partito delle Croci frecciate. Messe al bando da Horthy allo scoppio della Seconda guerra mondiale, le Croci frecciate rappresentavano la frangia più estremista del fascismo ungherese. Con Sztójay al potere e i nazisti in Ungheria i miliziani vestiti di nero e la croce uncinata al braccio fecero la loro comparsa per le strade e il loro leader Ferenc Szálasi ambiva sempre di più a guidare la nazione.

Dall’Ungheria iniziarono le deportazioni verso Auschwitz e i primi due convogli arrivarono al campo a fine aprile. Presto i forni crematori si rivelarono insufficienti al ritmo dello sterminio e furono scavate enormi fosse per bruciare i corpi. Accanto ai grigi burocrati dello sterminio da tavolino, come Eichmann e Höss, emersero figure di spietati assassini. Miklós Nyiszli, medico ungherese deportato a Birkenau scelto come assistente del dottor Mengele, nelle sue memorie si soffermò su un losco figuro: Otto Moll. Maresciallo maggiore delle Ss, nominato da Höss comandante di tutti i crematori, fu descritto da Nyiszli come «il più inumano e degenere criminale del Terzo Reich».

Moll fu visto gettare donne e bambini vivi nelle fosse ardenti, bastonare a morte i prigionieri e aizzare contro di loro i cani da guardia. L’azione di sterminio degli ebrei magiari fu chiamata dai nazisti «Aktion Höss» in nome del comandante di Auschwitz. L’uccisione di 5mila persone al giorno in un unico luogo rese questo evento storico il più emblematico e oscuro della Shoah. Una delle comunità ebraiche più floride d’Europa fu decimata in pochi mesi, anche se gli ebrei di Budapest furono meno toccati rispetto a quelli delle zone rurali.

Le marce della morte

A luglio finalmente le cancellerie internazionali fecero pressioni su Horthy affinché sospendesse le deportazioni. Ad agosto il governo di Sztójay fu estromesso e i trasporti verso i campi della morte cessarono per tre mesi. Nel frattempo i sovietici spingevano sui confini entrando nel territorio ungherese a settembre. A ottobre Horthy decise di fare la mossa decisiva: siglare un armistizio con i sovietici. Il 15 annunciò per radio l’armistizio, ma i nazisti, che già sapevano delle mosse ungheresi, costrinsero il reggente ad abdicare in favore di Szálasi, con la minaccia di uccidere il figlio.

Per gli ebrei di Budapest iniziò il dramma, quello delle fucilazioni sulle rive del Danubio e delle marce della morte, in una città oramai prossima all’accerchiamento sovietico. Durante questo periodo di terrore, che si concluse con la sconfitta della guarnigione tedesca il 13 febbraio 1945, tanti vennero in soccorso agli ebrei, come l’italiano Giorgio Perlasca che, fingendosi console dell’ambasciata spagnola, salvò cinquemila vite umane.

Oggi il figlio Franco porta avanti, nelle scuole, la necessità di ricordare quanto accadde nei mesi più bui della storia d’Ungheria e dell’Europa: «Solo così si possono generare quegli anticorpi utili affinché quello che accadde non si ripeta. Il 23 settembre 1989 mio padre fu insignito da Israele del riconoscimento di Giusto tra le nazioni, dopo tanti anni di silenzio».

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