Due milioni di persone sulle strade, 42 milioni di francesi davanti alla tivù, 150 milioni in tutta Europa, dirette in 190 paesi del mondo, 130mila presenze in più negli alberghi italiani, un indotto stimato di 120 milioni di euro per Toscana, Emilia-Romagna e Piemonte. E adesso dimenticate queste cifre, perché il Tour de France è molto più di questo. È storie, corridori, leggende, facce, caldo, fatica, festa, bambini che aspettano la carovana per portarsi a casa un berretto, una borraccia o l’inconfondibile maglietta a pois, come nel Dopoguerra. È un pellegrinaggio nel nostro passato, una processione nei luoghi sacri di uno sport che per gli italiani è stato salvezza e fede.

Prima che perdessimo la memoria dimenticando da dove veniamo. Il Tour viene da lontano per riportarci a casa, per ricordarci chi eravamo e forse chi siamo ancora, per omaggiare i nostri campioni, quelli che ci hanno resi orgogliosi, fratelli d’Italia quando dirlo era un segno d’identità e non una spaccatura.

Ottavio Bottecchia, 1924 e 1925

Il Tour de France, la corsa più grande, il terzo evento sportivo del mondo dopo Olimpiadi e Mondiali di calcio (l’unico che va in scena tutte le estati), parte per la prima volta dall’Italia a cent’anni dalla prima vittoria di un italiano. Era stato un eroe decorato nella Grande guerra e poi da San Martino di Colle Umberto, nel Trevigiano, era andato a correre per battere la miseria: il primo anno lo avvelenarono sui Pirenei perché non togliesse il Tour a un francese, Henri Pélissier, e comunque arrivò secondo a Parigi.

L’anno dopo, nel 1924, rimase in giallo dalla prima all’ultima tappa. Diventò Botescià. Nel 1925 vinse ancora. La miseria era sconfitta, il destino no. Meno di due anni dopo morì misteriosamente: lo trovarono sanguinante in un campo, ma le ferite non erano compatibili con una caduta in bicicletta. Dieci giorni prima avevano ucciso suo fratello, investendolo con una macchina. Si parlò di vendetta, di donne, di soldi. Ma più semplicemente erano stati i fascisti. Quest’anno il Tour rende omaggio a Botescià partendo dall’Italia.

Gino Bartali, 1938 e 1948

Il cardinale Elia dalla Costa lo aveva mandato a chiamare alla fine del 1943: Gino aveva già vinto due Giri d’Italia e un Tour de France, era insospettabile. Nessuno avrebbe trovato strano vederlo andare su e giù in bicicletta, i campioni hanno bisogno di allenarsi. Il cardinale non aveva dovuto convincerlo: Bartali era un uomo pio. Portava le foto autentiche, nascondendole nella canna della bici a Cortona, e ad Assisi riceveva in cambio documenti falsificati a regola d’arte.

Con questo trucco salvò più di 800 ebrei, senza dirlo neanche a casa, per non mettere in pericolo nessuno. Una volta fu anche arrestato dalla polizia fascista, ma non perquisirono la bici, così fu salvo. Soltanto molti anni dopo raccontò tutto a suo figlio Andrea, raccomandandogli il silenzio, perché «il bene si fa ma non si dice».

La prima tappa, sabato 29 giugno, a mezzogiorno, scenderà lungo il viale dei Colli e attraverserà piazza Bartali. Gino era nato a Ponte a Ema, a un pugno di chilometri da qui, e visse per anni poche centinaia di metri più in là, nella parte sud-orientale della città, sulla sponda sinistra dell’Arno: in piazza Elia dalla Costa, il cardinale.

Fausto Coppi, 1949 e 1952

ANSA

Sarà passata da poco l’una del pomeriggio, lunedì 1º luglio, nella terza tappa che da Piacenza porta a Torino, quando il Tour de France entrerà a Tortona. La città dove il 2 gennaio 1960 alle 8.45 Fausto Coppi respirò per l’ultima volta. Orio Vergani sul Corriere della Sera riassunse lo strazio dell’Italia in una frase che è ancora oggi il senso di una fine. «Il grande airone ha chiuso le ali».

Quel giorno la verità era ancora lontana, Vergani parlò di un «piccolo, misterioso, atroce, imponderabile intervento del fato».

Ipotesi romantica ma sbagliata. Il Campionissimo era reduce da una specie di vacanza in Alto Volta. Erano lui e cinque corridori francesi: Geminiani, Anquetil, Rivière, Anglade e Hassenforder. Il 13 dicembre corsero un criterium a Ouagadougou, vinse Anquetil davanti a Coppi. Parteciparono a un safari. Al ritorno, Fausto e Raphael Geminiani si ammalarono: debolezza, febbre alta. Il francese, nato in Alvernia da genitori romagnoli scappati da Lugo nel 1923 quando i fascisti avevano dato fuoco alla loro casa, andò in coma.

In Francia fecero analizzare il suo sangue all’istituto Pasteur di Parigi, capirono che era malaria e lo salvarono col chinino. La moglie di Gem chiamò i medici italiani, ma non ci fu verso. «Coppi ha un’infezione ai polmoni», la liquidarono. Quando Gem uscì dal coma, il 5 gennaio, gli dissero che Fausto era morto, e pianse per quel suo fratello lontano. Oggi ha 99 anni e non ha dimenticato niente. «La mia vittoria è essere ancora vivo».

Gastone Nencini, 1960

Quell’anno l’Italia aveva perso Coppi. Nencini invece trovò tutto: il Tour e l’amore. Gastone era di Bilancino di Barberino nel Mugello, dove da piccolo si tuffava nella Sieve in piena. Bellissimo, faccia da attore del cinema più che da ciclista. Lei, Maria Pia, aveva una profumeria in centro a Firenze. E lui nel mese di gennaio passava di lì con una scusa tutte le volte che usciva per allenarsi. Erano tutti e due sposati, e di dama bianca ce n’era stata già una e aveva spaccato l’Italia.

Ma quando l’amore è quello vero non si può aspettare. Il primo appuntamento fu in piazzale Michelangelo, l’incanto di Firenze là in basso fece il resto.

Cominciò la stagione, e si videro sempre meno, e ovviamente di nascosto. Dalla Francia lui le scriveva sulle cartoline del Punt e Mes.

Prima di Parigi, il Tour passò da Colombey-les-Deux-Églises, dove De Gaulle era in vacanza: il gruppo si fermò, il generale cercò la maglia gialla. «Voi siete italiano?». E Nencini rispose: «Sono fiorentino». Maria Pia la rivide sul treno che lo riportava a Firenze da eroe: lei era salita a Bologna di nascosto e sparì prima di Santa Maria Novella dopo aver fatto l’amore per tutto il tempo. Misero su famiglia ma non ebbero tanto tempo per godersela. Nencini non aveva ancora 50 anni quando morì. La prima tappa scende a Firenze da piazzale Michelangelo e prima delle 13.30 passa dal suo Mugello.

Marco Pantani, 1998

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La seconda tappa parte da Cesenatico, dove Pantani era cresciuto in un appartamento di via Saffi prima di scoprire la bicicletta, una bici da donna più grande di lui, che non arrivava neanche ai pedali. In prima media cominciò a correre con i suoi compagni di scuola, giocavano a Moser contro Saronni, e lui faceva Saronni. Quando andava alle prime gare in salita lo prendevano in giro perché veniva dal mare: dove vuoi andare, sei un corridore da sabbione. Girava sempre con una brugola in tasca perché aveva letto chissà dove che anche Merckx ne aveva sempre una: poi però la brugola finiva in lavatrice, e sua mamma Tonina non era contenta.

Ma non è a Cesenatico il vero omaggio all’ultimo corridore capace di vincere Giro e Tour nello stesso anno, il 1998. Nella prima tappa, fra le 15.55 e le 16.15, al km 135,6, si va sul Barbotto, una delle salite più celebri della Romagna. Côte de Barbotto, c’è scritto sul libro del Tour: 4,6 km, pendenza media dell’8 per cento, l’ultimo al 14 per cento, con una punta al 18. Qui hanno duellato Bartali e Coppi, che secondo la leggenda nel punto più duro mangiava una banana, qui Merckx nel 1973 avrebbe urlato “maledetto Barbotto”. Qui Pantani si allenava tutte le volte che poteva, e si fermava a prendere il caffè da un vecchio compagno di scuola. Detiene ancora il record della salita: 11 minuti e 20 secondi.

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