Per la quarta volta ha funzionato in Francia il muro eretto contro l'estrema destra, nei precedenti tre casi fu in occasione delle presidenziali. Il Rassemblement national di Marine Le Pen non raggiunge la maggioranza assoluta, anzi ci resta assai lontano, per una sconfitta assai larga se misurata sulle aspettative aperte dalle elezioni europee e dal primo turno delle legislative.

Nonostante diverse decine di defezioni alla desistenza da parte di candidati che fanno capo al presidente della Repubblica Emmanuel Macron, sono bastate quelle messe in atto, ben 218, per sbarrare in modo più clamoroso di quanto ci si aspettasse la strada al partito xenofobo ed erede della destra fascista.

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Doveva aver annusato l'aria la stessa Marine che ha protestato contro la “conventio ad excludendum” contro di lei. E certo non ha giovato la presa di posizione del ministro degli Esteri russo Seghei Lavrov che si è scagliato senza mezzi termini contro il baluardo eretto da sinistra e centristi: «Il secondo turno è stato concepito per manipolare la volontà degli elettori».

Un chiaro pronunciamento a favore di Marine dopo la posizione da lei espressa contro l'invio di soldati francesi in Ucraina e l'uso offensivo verso la Russia delle armi fornite a Kiev. A sostegno di Le Pen si era espresso anche il solito Matteo Salvini, criticando un presunto tradimento della volontà del popolo. Quando in realtà il popolo si è chiaramente espresso. Il sistema elettorale maggioritario a doppio turno della Quinta Repubblica ha del resto sempre funzionato da freno per gli eccessi estremistici.

E ora?

Certo ora sarà difficile dare un governo alla Francia visto che continua un'avversione reciproca nel campo dei vincitori tra il presidente della Repubblica Emmanuel Macron e il leader del Nuovo Fronte popolare Jean-Luc Mélenchon, assai esplicito nelle prime parole dopo il trionfo, nel criticare soprattutto la politica economica del Capo dello Stato e in particolare la legge che ha innalzato l'età delle pensioni a 64 anni.

Se ha ragione papa Francesco quando sostiene, come ha fatto ieri, che la democrazia non è in buona salute, è altrettanto vero che la democrazia stessa è capace di trovare le sue ragioni profonde e di rilanciarsi quando la competizione è appassionante perché mette in gioco due visioni diverse e antitetiche del mondo. Troppo spesso la sostanziale indistinguibilità delle offerte politiche aveva prodotto disaffezione, unita alla convinzione che il voto non fosse utile a cambiare davvero le cose.

La forte affluenza alle urne in Francia, con percentuali inedite nel nuovo millennio, riflette la volontà dei citoyen de la République di essere protagonisti del proprio destino in una mobilitazione che ha significato, da una parte, il desiderio di accedere per la prima volta alle stanze del potere dell'estrema destra, dall'altra la resistenza opposta da un Fronte popolare unito e vagamente alleato al centro per rigettare il progetto lepenista, portatore di valori che poco hanno a che spartire con il passato recente dell'Esagono.

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Le prospettive

La destra, una volta bevuto l'amaro calice del voto, potrebbe trovare un minimo di consolazione considerando che comunque non aveva mai raggiunto un consenso così alto. Mentre la sinistra, dopo l'ubriacatura di felicità, dovrà forzatamente considerare che in realtà si è conquistata soprattutto il tempo per riflettere sui suoi errori endemici, le divisioni che ne hanno causato le debacle in passato, la mancanza di una visione ideologica adeguata ai tempi che sono cambiati. Non potrà a lungo funzionare la solita emergenza della ventitreesima ora contro il pericolo fascista, quando si avverte il nemico alle porte.

È l'ora di passare dall'essere contro all'essere pro, elaborare una proposta capace di convincere in positivo gli elettori. Avendo particolare riguardo per i temi economici, la perdita di potere d'acquisto dei salari, il rilancio dello stato sociale, l'attenzione a sanità e scuola, le note dolenti che hanno causato una diminuzione di fiducia nello Stato un tempo proverbiale, tanto che l'aggettivo più usato per definire i francesi è «sciovinisti».

Si dovrà occupare, la sinistra, anche della ricomposizione della frattura fra città e campagna, fra città e periferie, la più dolorosa da registrare perché cartina di tornasole dello sfilacciamento della coesione sociale. Un adagio vuole che Parigi è la Francia e la Francia è Parigi, a sottolineare l'orgoglio diffuso per l'impareggiabile capitale. Se mai lo è stato, non è più così.

In ogni caso, piaccia o non piaccia a Mélenchon, sarà necessario concordare un percorso con il suo acerrimo nemico Macron, in una sorta di coabitazione di fatto, per non tradire il mandato che è stato loro assegnato dai francesi. E Macron, sebbene obtorto collo, dovrà rivedere il suo programma nei tre anni di Eliseo che ancora gli restano. Non più il presidente dei ricchi ma il presidente che guarda con più attenzione le sofferenze delle classi sociali meno protette.

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