Ora l’imperativo democratico è “salvate il soldato Conte”. Fino al voto europeo tutto il Pd, dalla base ai dirigenti, dalla sinistra ai riformisti, si spazientiva con la segretaria perché non rispondeva piombo su piombo agli attacchi del leader M5s. La accusava di essere «subalterna».

Di rischiare di farsi cappottare dal Movimento. In tutta la campagna elettorale, Elly Schlein ha dato a Giuseppe Conte una rispostaccia solo una volta: a Bari, quando lui ha fatto saltare le primarie fra i candidati sindaci Leccese (Pd) e Laforgia (civico-grillino) e ha accusato il Pd di avere una grossa «questione morale». Lei gli ha ringhiato che non accettava lezioni su Berlinguer e che lui così «aiutava la destra». Poi stop.

La campagna è continuata con frecciate unilaterali, da lui a lei. Lei zero repliche, in attesa del giorno del giudizio (europeo). A Bari è finita con Leccese al 48 per cento, Laforgia al 21. Domenica 23 giugno, al ballottaggio, il candidato dem vincerebbe anche senza i voti dell’ex avversario, ma giovedì sera Schlein, sul palco della chiusura, ha voluto non solo il suo candidato ma anche l’altro. E non solo i “suoi” Francesco Boccia e Antonio Decaro ma anche il grillino Gianmauro Dell’Olio: la bandiera della casa è «spirito unitario».

Anche perché nel frattempo il giorno del giudizio è arrivato. E mentre il Pd è spiccato al 23 per cento, il M5s è sprofondato al 10. Insomma, nella sfida a sinistra ha stravinto lei. Bene. Ma ora al Nazareno nessuno deve stravincere. Perché un Movimento sotto il 10 per cento è un problema per Conte, certo, ma anche per il Pd. Che senza un alleato a doppia cifra può mettere insieme tutti i cespugli che vuole ma non sarebbe competitivo. Dunque prima Schlein si dichiarava «testardamente unitaria»? Ora lo è al cubo. Conte non va umiliato, ha già le sue grane interne, Grillo che lo insulta, dice ai suoi che piuttosto che farsi commissariare lascia.

Dunque dal Pd arrivano solo gentilezze e affettuosità. Martedì scorso a piazza Santi Apostoli, alla manifestazione unitaria contro le riforme, lo si coglieva dai dettagli: l’intervento di Conte prudentemente messo a due interventi di distanza da quello della segretaria: per evitare il confronto dell’applausometro, avrebbe premiato lei. Altro dettaglio: sotto il palco c’era una marea di bandiere grilline, poche del Pd. I “compagni” al segretario del Pd romano Enzo Foschi: «Dove stanno le nostre bandiere?». Lui sorrideva tranquillo, con un gesto che significava: tanto si sa che abbiamo vinto noi. La richiesta di evitare la prova di forza era arrivata dal Nazareno.

La lezione di Letta

Aiutiamo il soldato Conte, dunque. Perché ogni alternativa a lui sarebbe una mazzata per il campo largo. Ma poi alternativa interna non c’è, perché ormai «il M5s è un partito a sua immagine e somiglianza», secondo il fuoriuscito Luigi Di Maio. Che è l’ex “capo politico” del Movimento che da ministro degli Esteri del governo Draghi fece una scissione sperando di portarsi via tutto il cucuzzaro. E invece vennero solo i parlamentari a fine secondo mandato. Era giugno 2022, le amministrative erano andate male, l’ex premier si convince che l’appoggio a Draghi fa male al M5s e progetta di togliergli l’appoggio.

Inizia ribaltando la posizione sugli aiuti militare a Kiev. Il titolare della Farnesina non può stare in un partito che si sfila dal fronte Nato e strappa. Il Pd di Enrico Letta tifa per Di Maio. Conte non lo perdonerà mai: «Il Pd voleva farci fuori». Di qui la caduta di Draghi, la corsa solitaria alle politiche, la vittoria di Giorgia Meloni. Schlein ha fatto tesoro degli sbagli di Letta, e oggi sta bene attenta a che i suoi non ballino sulle disgrazie (politiche) altrui. Ma non c’è neanche bisogno di dirlo: la novità è che a pensarla così nel Pd non è solo la segretaria. Lo pensa anche l’area riformista, che non ha mai osteggiato l’alleanza con M5s, ma ha temuto la deriva grillina dei dem.

Basta ascoltare il senatore Alessandro Alfieri: «Con i Cinque stelle stiamo lavorando insieme contro le riforme in parlamento, e non solo. Hanno un momento di difficoltà? Per il Pd è il momento di essere generosi: l’alleanza con loro è necessaria, le europee per loro non è la competizione più facile, restano un partito molto radicato al Sud. Ma è necessaria anche l’alleanza con i centristi, un’area che esiste, dai tempi di Monti a oggi, e pesa almeno il 10 per cento».

Marco Meloni, area neoulivista: «Parto dalla mia regione, la Sardegna, dove abbiamo vinto e governiamo insieme: sono andati molto bene, come anche il Pd. Credo sia meglio, per loro e per il Paese, che sia chiusa la stagione in cui stavano un piede dentro e un piede fuori dall’alleanza. Oggi dobbiamo lavorare insieme per costruire un’ampia coalizione progressista, democratica e riformatrice».

La cabina di regia

In parlamento intanto si stringono i bulloni dell’alleanza: «L’interlocuzione sulle riforme è aperta con tutte le forze dell’opposizione, presto faremo una cabina di regia per coordinare le iniziative», spiega un deputato vicino alla segretaria, «come prima più di prima», «del resto lo spirito unitario è quello che ha prodotto il nostro risultato alle europee» (questa però è un’allusione alla postura rissosa di Conte), «è una linea che Schlein segue per indole e per logica», «cerchiamo convergenze su temi forti, ce l’hanno chiesto a piazza Santi Apostoli: ma Schlein lo sapeva già perché va tra la gente, e la ascolta pure». Peraltro a fine anno ci saranno le regionali in Umbria ed Emilia-Romagna; e il prossimo anno in Toscana, Campania e Puglia. Lo «spirito unitario» può tornare utile.

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