Una conferenza stampa alla sede del partito, oggi, per presentare il documento tecnico del Pd contro il Ponte sullo stretto di Messina. Domani, tour in Basilicata per sostenere la corsa di Piero Marrese alle regionali di domenica e lunedì prossimo. La segretaria del Pd è in campagna elettorale in prima persona, pur senza aver ancora annunciato se e come parteciperà alle europee. Ieri era al Nazareno con Igor Taruffi, responsabile organizzazione, a lavorare sulle liste. L’annuncio dovrebbe arrivare domenica, alla direzione convocata a urne lucane aperte. Scelta peraltro inconsueta.

È comunque probabile che quel giorno non svelerà tutti i dettagli della sua corsa, né della «squadra» a cui lavora dall’inizio dell’anno. Per il voto definitivo sulle liste, sarà riconvocata un’altra direzione a fine mese: a ridosso della consegna ufficiale degli elenchi. Non sarà un “prendere o lasciare”, ma ci sarà poco spazio per le discussioni.

Iniziata male

Certo, l’avvio della campagna per le europee non è quello sperato dalla segretaria. In Basilicata il centrosinistra ha trovato un candidato solo dopo averne bruciati parecchi. E a Bari le cose rischiano di avviarsi sullo stesso sentiero. Tre ondate di arresti hanno lambito il partito, Giuseppe Conte ha fatto saltare le primarie, lunedì è uscita la notizia di un’indagine per corruzione su un assessore di Antonio Decaro, subito dimissionato. Intanto un candidato comune del centrosinistra non si trova. Come in Basilicata, anche qui è il M5s a mettere veti, lo ha spiegato l’ultimo che ha ritirato la disponibilità a correre, l’ex magistrato Nicola Colaianni.

Oggi si incontreranno i due ex sfidanti dei gazebo, Vito Leccese e Michele Laforgia. Il secondo è irriducibile, e all’ordine del giorno, più che margini di sintesi, sembra esserci un accordo sul secondo turno: chi vince sostiene l’altro. Ma questo presuppone una campagna elettorale improntata al fair play. E invece in Puglia volano stracci.

Quattro assessori e una catarsi

Gli stracci arrivano fino al Nazareno. Ieri Michele Emiliano ha riunito la sua maggioranza. Dopo la rottura delle primarie, il presidente è riuscito a stringere un accordo con Conte sul prosieguo della sua giunta. Ma non aveva fatto i conti con la sua segretaria: che invece ha chiesto «un netto cambio di fase che non può tradursi in una mera sostituzione di chi è uscito». Il presidente lo ha promesso, obtorto collo, ma ieri ha sottolineato che c’è un problema: «A Roma questo non lo sanno bene: c’è uno statuto regionale che obbliga il presidente a scegliere gli assessori non da 60 milioni di persone, ma da 30 eletti della sua maggioranza, il che ovviamente è piuttosto complicato». L’ala sinistra del Pd, che pure ha proposto una «riforma del partito» e che non è tenera con i cacicchi, da giorni spiega che il presidente pugliese può nominare in giunta solo due esterni, ma che gli altri assessori sono tutti consiglieri: e non è facile neanche per Emiliano mandarli a casa in blocco per colpe non proprie, e poi chieder loro di votare una nuova giunta. Dovrebbe finire con il cambio di quattro assessori. Ma basterà alla segretaria per poter annunciare il «netto cambio di fase»?

Insomma la campagna non è iniziata bene. Non è responsabilità della segretaria, ma sta a lei voltare pagina. Ma è sotto il tiro di Conte, che ha imbracciato lo slogan della «onestà, onestà», senza neanche dover pagare un’agenzia di creativi. Schlein ha risposto con un’idea: la nuova tessera del Pd dedicata a Enrico Berlinguer. Ha raccontato che le è venuta quando ha visitato la mostra organizzata a Roma da Ugo Sposetti, nume tutelare delle memorie del comunismo italiano e presidente dell’associazione Berlinguer. Che non è un’associazione qualsiasi: è la rete delle fondazioni democratiche che conservano «e valorizzano» la storia del Pci, e anche il patrimonio materiale.

«L’anno prossimo Moro»

Ma non sono i cent’anni dalla nascita del segretario comunista a motivare la scelta di una tessera così impegnativa, è la rivendicazione della «questione morale». Quella che oggi Conte ritorce contro il Pd. Eppure, non volendo spiegarla così, la scelta della tessera ha fatto storcere il naso agli ex Dc fondatori del Pd. Lo ha detto in chiaro Pierluigi Castagnetti, presidente dell’associazione Popolari al Giornale: «Se Elly Schlein vuole che il Pd sia la versione aggiornata del Pci tanti saluti. Noi non ci siamo». Per uno che lo ha detto, ce ne sono tanti che fanno battute amare, che suonano così: «Vorrà dire che l’anno prossimo ci sarà una tessera con gli occhi di Moro. O De Gasperi». Per ora se le tengono in gola perché il Pd è sotto attacco di Conte, annaspa in Puglia, e la Basilicata non promette nulla di buono.

Schlein non vuole rifare un Pci che non ha mai conosciuto né praticato da vicino. E non vuole neanche fare del Pd la prosecuzione del comunismo italiano.

Quando le è stato chiesto se era comunista, ha dato la risposta di chi non si era mai posta il problema: «Sono nativa democratica per ragioni anagrafiche» – è nata nel 1985 – «non ho potuto appartenere alle storie precedenti e al Pci». Ma per tentare il salto delle europee, che sono da sempre considerate la sua prova di laurea da segretaria, deve trovare un’idea forte. E unificante per tutti i suoi: a oltre un anno dalla sua elezione, quello che succede al partito è frutto della sua elezione ai gazebo, e della sua convinzione di dover parlare agli elettori, che però sono molto diversi da una parte importante degli iscritti. Per questo ogni scelta rischia di non piacere a metà del partito. Fin qui è stato un punto di vanto per lei aver abolito i «caminetti» dei big. Ma il risultato – era ovvio – è che le sue scelte risultano prese in solitaria.

E sarà considerato un segno di forza solo se le cose andranno bene: a Bari, a Firenze, nei comuni dove c’è ancora il core business del Pd. E poi a Bruxelles: dove non basta riportare il Pd «sopra il 20 per cento» come viene detto spesso al Nazareno, prendendo a paragone i sondaggi post politiche, che lo davano in calo. Ma alle ultime politiche il Pd era al 19.

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